Michele Brancale – Inediti

Il mare di notte è un suono che arriva,/
un piano grigio che si lascia annunciare
da una striscia bianca

 

Sui binari dell’inquietudine viaggiano
su treni di lunga percorrenza
con un solo passeggero che raggiunge,
lentamente,

stazioni lontane.
Cercano, scendendo per qualche minuto,
persone che hanno lasciato anni addietro
nelle case o nelle strade che sono alle spalle
e si addentrano nelle sale d’attesa
come se la loro immagine fosse ancora lì,
accanto a chi li aveva accompagnati,
per salutarli.

 

 All’ombra dell’attesa in fiore

Ebbro d’attesa mi spersi nel giorno
del suo ritorno, compreso nel tratto
che avrei avuto per la sua apparizione,
lì, nel luogo scelto per la ripresa
di quel mondo che mi era corso intorno
anni addietro, così lontani e vivi,
ora dagli ingranaggi più rallentati,
mossi nella costellazione interna
da qualche notizia che a volte arriva.
Un po’ come quando si torna dove
si è cresciuti e tutto sembra sempre lì,
intatto, vero, con gli stessi nomi
alle porte mille volte varcate
o dalle stanze immaginate dietro
la soglia delle case che parlano.
Ma lei che più di tutto significa
quel mondo, non l’ho più vista, s’è persa
come per inesorabile incanto
– l’ho capito purtroppo solo dopo –
nelle pieghe di vita rimandata.
Poter credere ancora nel ritorno,
in un debito saldato dal tempo,
con volti anche sottovalutati
e poi da me in qualche modo rimpianti
dava ora voce alla gratitudine.
Vinto dall’emozione giunsi all’ora
data e mi imposi – ma fu naturale –
di essere cortese ed affabile, vero,
anche per risarcire distrazioni,
mancanze di attenzione nel passato.
Riconoscevo ed ero riconosciuto,
evitando di essere sbrigativo
in quell’ambiente allestito con gusto,
col tempo riscattatato dal volersi
vedere, sostare, nel nostro mondo
ricomposto. Poi, disposto lo sguardo
generale, gustata la sorpresa,
con discrezione stringevo le mani,
con ciascuno mi attardavo per un po’,
ma di lei non trovavo ancora traccia.
Cercavo i modi di chiedere di lei
ed evitavo di fare domande,
per non suscitare reazioni amene
e la curiosità delle conferme.
Tutti a tutti andavano ripetendo
che non mancava nessuno, nessuno.
In quella mia ricerca silenziosa
non trascuravo di parlare agli altri
in ogni gruppo che lì mi accoglieva,
uomini e donne di cui ricordavo
molto ma, con mia sorpresa, non tutto.
Infine mi sedetti sul divano
stanco, sfibrato, eppure esuberante,
con il calice riempito di bianco.

Chi si trattenne fino al giorno dopo,
fu ritrovato come me disteso.

Quando mi svegliarono – e solo allora –
chiesi come mai, lì, non c’era stata.

Mi guardarono con stupore intenso
e sorridendo con condiscendenza

mi dissero: “Ci hai parlato più volte,
non l’avevi riconosciuta? Ma dai”.

Alcuni, più intimi, mi presero
da parte, con loro compiacimento,

per sussurrarmi che vistomi assorto
si era congedata da me sfiorando
con la sua mano il mio volto cambiato.

Ecclesiam suam

La città che si ritrae su se stessa
allontana le finestre e le porte
ossidando di fatto i campanelli:
numeri invece dei sani cognomi.

Tra convenzioni, affitti e rendiconti,
corsi di formazione spesso assurdi
il Pubblico non premia la presenza

sul territorio e punta a irretire,
per la trama funesta di partiti
che non sanno come dare il lavoro

ad accoliti di lungo periodo,
il volontariato – lode – gratuito.

Anche alcuni ordini religiosi
che vendono a prezzi inaccessibili
edifici inabitati, svuotati
da cui lo Spirito è ormai volato via,
sembrano venali per necessità.

In realtà c’è per ogni vicariato
uno “spazio” vuoto a cui riportare
la Parola che salva ed è viva.
Nelle periferie i sindacati
languono o sono spariti del tutto.

Cerco stazioni sottoutilizzate
per aprire un doposcuola gratuito
ma dietro pagamento di un canone:
le Ferrovie come riferimento
sociale e più sensibile di altri.

Eppure quante messi biondeggiano
negli occhi del Signore; quanti volti
lui ha presenti dietro quelle porte.

Vuole aprire una fontana proprio lì,
nel centro del quartiere, per chi ha sete
e pure stando al piano vuol salire
in altro a guardare tutte le cose
in un altro modo, con prospettiva.

Come fare cultura della fede?
La corsa al digitale serve a poco
senza incontri veri tra le persone,
piuttosto che contatti artificiali,
posticci, appiccati e giustapposti,
che che – dicono – fanno tante “rete”.

“Vorrei saper da te, com’ella è fatta
quella rete d’amor che tanti abbraccia …”


Per Marino

Benedetta sia l’inutilità delle esequie
come un vaso che senza vuoto non esisterebbe.
Dove porre l’acqua che purifica
e richiama in te alla trasparenza?
O i fiori che dicono dello sguardo di Dio
e dei Suoi sentimenti anche verso di te?

 

En Arché
(Al Principio di tutto)

Stanno sovrapposti i corpi con le braccia distese,
le mani contorte o aperte al cielo.
Sono gruppi di fratelli nemici, spesso assiepati insieme.
Hanno i più occhi chiusi, altri aperti ma spenti
e si sente salire un grido muto,
nell’inerzia dei carri distrutti e di armi abbandonate ovunque, fino al lago.
Sulle acque due cigni cominciano la danza,
disegnando la forma perfetta dell’amore e di un futuro
e cantano

e piccole onde percorrono la superficie fino a riva.
Che se ne fa il drone che li sorvola?
Non fosse manovrato, sceglierebbe di annegare e sparire.
Ma quel grido muto è arrivato già lontano,
intenso e più veloce della luce nell’universo e oltre i suoi limiti,
attraversando i buchi neri,
senza poter essere trattenuto dalla trama oscura,
fino al cuore di un padre, di una madre,
al Principio di tutto.

 

(da http://www.italian-poetry.org/2024/03/13/sulla-guerra-3/ – marzo 2024)