Massimo Morasso
Inediti
*
La spaesatezza,
il sentimento celeste di un esilio,
è il morso del leviatano,
neutrale e sconcertante come il vero
nel mare dello struggimento umano
per tutto ciò che esiste.
*
Quando l’anima m’impone di parlare,
quando zittisce il gracidio dei vivi,
ecco che arrivano gli ospiti invisibili,
si apre la casa
non c’è più nessuna chiave.
*
Accusatrici,
le cose mi ricordano che esisto,
e io – non vedi? – rimbalzo dentro ai nomi
un doppio, smisurato desiderio.
Avere fede, sperare di sussistere
è scuotersi di dosso l’idea di essere mortali
non dare tregua alla pazzia d’amore.
*
Nel sapere della distanza
non può esserci pace:
ciò che viene per essere nominato
mi sfinisce come un bacio immaginato.
*
Succede
che ci si senta affiatati
io e la morte.
Succede, quando lei viene da dentro, viene
per farmi compagnia,
prima dell’ora
mi incontra nello specchio
come in sogno
quando il mio fianco fuoriesce dal costato
che dà rifugio al cuore.
Succede, ci sfioriamo rapiti, spie
della gioia, per provare a noi stessi che siamo un’unica realtà,
ci accogliamo nel puro, affondiamo
come amanti, intiepiditi, l’uno nel-
l’altro: l’uno
nell’immagine dell’altro.
DANIELA BISAGNO
Le rime invisibili o l’imperfetta tangenza: Cinque poesie di Massimo Morasso
«Invisibile era il mondo dei fatti che contavano per lui»
Max Brod (su Franz Kafka)
I.
Ci sono vocaboli che si riescono a malapena a pronunciare, e, ancor meno, a “usare” in poesia. Uno di questi credo sia proprio “spaesatezza”, la parola con cui ha inizio il primo di questo mannello di nuovi testi di Morasso, un po’ per l’effetto cacofonico, sgradevolissimo, prodotto da quella doppia zeta, un po’ per la sua ingombrante portata filosofica, che le conferisce una certa… pesanteur. In realtà (e per fortuna), non esistono termini che non abbiano diritto d’accesso in territorio poetico, dai nomi della tribù sino a quelli più sofisticati, appunto, fra i quali questo lemma, per tutta la zavorra di significati e il carico sonoro che lo adombra, è destinato a spiccare. La mia impressione è, anzi, che Morasso lo abbia scelto proprio in virtù di questa grevità e concretezza, quasi come parola grimaldello (o martello, direbbe forse René Char), onde produrre una crepa in un silenzio.
Una pesantezza dunque che, paradossalmente, apre il varco a una grazia – la invoca e la porta con sé – dissuggellando insieme… il tempo (fragile) della poesia: per dire qui – e proprio in principio, cioè nel luogo di una (ri)fondazione poetica – quanto in realtà si potrebbe dire solo laggiù… o lassù. E l’altra parola che sorge, quasi immediatamente dopo, fuoriuscendo a fatica da questa apertura, è l’unica che possa rimare con “spaesatezza”: “esilio”. È pur vero che, restando sul piano dell’ apparenza, i due lemmi non sono legati da alcuna parentela, né di ordine etimologico, né tanto meno di ordine fonetico, e tuttavia al buon lettore dotato di orecchio assoluto non potrà sfuggire l’eco di questa rima, assente nello scritto, ma presente in quel pre-testo che fa rimare fra loro gli impossibili, da cui il testo discende ed è, al tempo stesso, in esilio.
Questo è, in fondo, il dramma della lingua in generale e di quella della poesia soprattutto – essere lingua degli uomini invece che lingua celeste –, e da esso, che lo si nomini esplicitamente o meno, prende le mosse ogni testo poetico. Il morso del leviatano è, appunto, il segno – “sconcertante” come tutti i prodigi, che non sarebbero tali se non suscitassero uno shock – di questa spaesatezza, il sentimento della quale rilkianamente ci (di)strugge. Come indica l’altra rima, visibile, quasi tangibile: sentimento/struggimento (dove il termine medio, non inscritto nel testo, ma che traluce in modo assai perspicuo nel meno usuale “spaesatezza”, è “spaesamento”), grazie alla quale sembra rafforzarsi la percezione per cui ogni sentire implicherebbe un essere spaesati, dunque, un (di)struggersi (uno “svanire”).
E poi, c’è quell’altra rima “leviatano/umano”, che fa combaciare due opposti: l’icona biblica e favolosa del mostro, quasi affiorata da un mare ancestrale, inafferrabile come lo spirito della vera lingua (in una redazione precedente della poesia Morasso aveva inserito l’espressione “brezza inafferrata” più esplicitamente allusiva al pneuma, in quanto “fiato, spirito, lingua”), e quella dell’umanità, per la quale «sentire è svanire» (II Elegia Duinese). È il proprio della lingua poetica, del resto, come ben si sa, più vicina, fra tutte quelle umane, alla lingua celeste, realizzare la coincidenza dei contrari, far rimare “pane” e “fame”. Ma questa rima, per abile e compiuta possa essere, indica un punto di tangenza sempre imperfetto, una visione svanente – visio disparens – che resta come traccia (minima) di ciò che si è già perduto: il segno (della scrittura) appare, quando la visione scompare.
Come dire che, nella lingua poetica, è la scomparsa – l’imperfetta tangenza dei contrari segnalata dalla rima – e di cui l’assonanza, la consonanza, l’allitterazione e le altre figure di suono costituiscono approssimazioni per difetto – e non la pienezza (della presenza) a diventare l’evento decisivo. Lo struggimento è, allora, «per tutto ciò che esiste» e che non potendo essere detto, finisce inevitabilmente per dissolversi nell’indistinto, qui suggerito dall’immagine di quel mare/maelstrom in cui ogni presenza sfuma, senza lasciare tracce visibili di sé, giacché il lutto non è mai, o non è mai solo, per la scomparsa di un vivente, ma per il suo impossibile venire pienamente alla luce… della lingua (il «cio? che chiede d’essere nominato/ mi sfinisce come un bacio immaginato» del quale parla in chiusa il quarto testo del “polittico” morassiano).
II.
«Quando l’anima mi impone di parlare,/ quando zittisce il gracidio dei vivi»: qui, nei due versi iniziali della seconda poesia di questa plaquette, l’anafora di “quando”, non solo non genera ridondanza – come non la produrrebbe una doppia luce, un suono reiterato o il passo ripetuto di una danza –, ma si direbbe un atto doveroso, quasi per rafforzare il segno di una grazia, sempre pronta a darsi e a svanire nello stesso punto (ma non è questo, d’altronde, il miracolo e la pena su cui si consuma la lingua della poesia, nella sua aspirazione, sempre frustrata, sempre di là da venire, a realizzare la morassiana “opera… in rosso”?). E dirò anche che trovo molto convincente il «gracidio dei vivi», con quell’intrigante rimbalzo sonoro della “v”, in “vivi”, “invisibili” e “chiave” (nell’ultimo verso), favorito dall’allitterazione di questa consonante.
Qualcosa si sta sgretolando: un “ivi” i cui frammenti si disseminano nel corpo della poesia, nei lemmi che continuano a echeggiarne il suono, aprendo di fatto uno spazio che prima era chiuso, sigillato. Cioè la dimora, la stanza, quella della poesia – un “dove” in cui ora doverosamente spadroneggiano “ospiti invisibili” –, l’io stesso dell’ospite, nel senso di colui che offre accoglienza, forse nel tentativo di saggiare «la mobile barriera di contatto che esiste (…) tra l’oltremondano e l’ambito accessibile all’esperienza dell’uomo» di cui Morasso ha scritto in Essere trasfigurato (Qiqajon, Magnano 2012), a p. 42.
Del resto, in quel libro su Congdon, che si potrebbe anche leggere, in controluce, come il prezioso abbozzo di un rudimentale self-portrait, Morasso scriveva anche (a p. 38): «Conoscere, mostrare il come del mistero, convocandolo sulla pagina o facendolo vedere in un quadro, presuppone la deposizione di ogni struttura appropriativa dell’io. Attraverso la cancellazione del proprio (…), questo agguerrito tracciatore di confini, bisogna cercare l’impossibile via dov’è possibile l’incontro tra due mondi contigui, interrelati eppure irriducibilmente distanti».
III.
Si dice che si possa accedere alla verità della parola, solo laddove essa risulti più spossessata della cosa, dissociata dalla residenza e dall’appartenenza, “nel rischio e nella fessura dell’intervallo”, «nel momento in cui dire è appunto non aver luogo, o non aver più altro luogo se non la parola stessa» (Michel de Certeau, Il parlare angelico, Olschki, Firenze 1988, p. 103). Se è così, allora, quella tacita accusa rivolta dalle cose, in Accusatrici, non potrebbe essere anche il segno di una trasfigurazione non riuscita o non compiuta del tutto? Di una mancata (o di un’imperfetta) deposizione di ogni struttura appropriativa da parte del poeta e, dunque, da parte della parola, che tanto più è veritativa, quanto più risulta dissociata dalla residenza e dall’appartenenza, cioè “spossessata dalla cosa”?
Come se la scrittura di Morasso denunciasse, al tempo stesso (anzi, si insediasse nel punto incandescente di un dissidio tra) il bisogno ineludibile di realizzare il salto al di là, in primis attraverso quella “cancellazione del proprio” in assenza della quale non si dà “opera” perfetta, né poesia come canto dell’alétheia, e la resistenza a compiere tale sforzo. Portare a rappresentazione compiuta l’invisibile, che è «meta ideale del nostro fervente spiritus phantasticus» («Non c’è vera ri-creazione della realtà senza anelito alla trasfigurazione del sensibile e del mondano», scrive ancora Morasso in Essere trasfigurato, a p. 24), è infatti il passaggio finale di un processo che riguarda in prima istanza l’autore, come recita quella norma, fondamentale nel decalogo alchemico, per cui la meta viene raggiunta solo quando la ricerca grava sul ricercatore. Vale a dire, per esprimermi con le parole stesse del poeta genovese, allorché «l’idea di essere mortali», e con essa la nostra individualità, viene deposta per lasciar libero spazio alla fede in quanto principio di attualità e di operazione: un “essere in atto”, «l’operare che si è lasciato alle spalle l’ontologia, e che la eventua» (Essere trasfigurato, cit., p. 65).
IV.
Mi chiedo se la «pazzia d’amore» di cui Morasso accenna nei suoi versi, non equivalga, quasi paolinamente, a quella passione conoscitiva, che spinge a varcare il limite fra i due mondi o «a fissare il proprio sguardo interrogante sui paesaggi dell’anima che possono portare per visibilia ad invisibilia». Una follia (“amorosa”, come ogni pazzia cui inerisca uno slancio conoscitivo) che rappresenta in questo caso anche un’estrema forma di ospitalità (poetica) che, se da un lato accoglie (l’invisibile, le cose che si appressano per ricevere nome), dall’altro espropria l’ospite stesso, – colui che offre ospitalità –, il quale, privato della sua appartenenza, non solo non possiede più un proprio, ma «non ha più «nessuna chiave» per accedervi. E appunto “ora” e “qui”, dove non c’è ormai più nulla da preservare o da difendere, giacché l’irruzione dell’invisibile e il vento tempestoso della follia (d’amore) hanno fatto piazza pulita di casa e cose, nella calma improvvisa che talvolta segue a un lutto o a un evento catastrofico, qualcosa accade… E questo “qualcosa” che si consuma in sordina, quasi fosse un fatto comune, un accadimento qualsiasi, che non esorbita dalla nostra ferialità, non è, a ben vedere, neppure un evento, ma quel che lo precede e lo fa essere: come per colui che desidera e soffre del suo desiderare, trovarsi d’improvviso faccia a faccia con questa Mancanza.
L’incontro che mostra tutti i segni di un connubio nuziale – con quel convergere di fiati in uno stesso punto, quasi alitati dal recto e dal verso dello specchio («Succede/ che ci si senta affiatati// io e la morte») – lo specchio che si pone davanti alla bocca del morente per provare se ancora vive – (e del foglio), dove quanto più appare diverso è più prossimo (la morte), è la forma in cavo dell’amore, come forse lo è della poesia. E questa cavità, e il vuoto pneumatico, figura del respiro, che si produce nel vacuum della ferita inferta nel costato, dove ha sede il cuore (la simbologia cristologica è così trasparente in questi versi che rende quasi superfluo rimarcarla) diviene qui, grazie alla mediazione dello specchio, alveo, ricettacolo.
Quel che sembra accadere fuori, sulla superficie speculare, in realtà “succede” all’interno, nell’urna (materna) aperta dalla ferita. In quel punto preciso di dolore e di nascita, dove ciò che sboccia, rimane dentro – cosa d’anima –, e affonda con grazia, invece di affiorare, «nel puro», in cui tutto è un muoversi d’acque, o forse sarebbe più giusto dire – un danzare. Tutto avviene in interiore homine, ubi – ci suggerisce Agostino– stat veritas, come nella danza che è quanto di più prossimo alla verità, secondo Valéry. L’anafora stessa dell’impersonale “succede” pare indicare qualcosa che avviene nell’incomprimibile pienezza di un’acqua amniotica, invisibile, che sembra non opporre resistenza alcuna, e dove gli esseri dispongono d’una mobilità ideale, come le danzatrici di Degas, sempre secondo Valéry. «Ci accogliamo nel puro, affondiamo/ come amanti, intiepiditi, l’uno nel-/ altro»: sono versi di una bellezza quasi incommentabile, pur nella loro felice ascendenza da un archetipo rilkiano, che potrebbero ben figurare come didascalia di una danza.
O di una maternità, come quella mistica e visionaria della Madonna che porta in sé il Cristo del quadro di Congdon, di cui Morasso parla nel suo libro (il meraviglioso Heleanna). Figura di un’accoglienza reciproca, di un’ospitalità plenaria, dove l’uno fa posto all’altro dentro di sé, ma senza nascita e senza resurrezione.
Fotografia di proprietà di Cassano Alessandro.