Dieci dolcezze di Marco Galvagni (Milano 1967).
Un poeta decisamente anomalo nel nostro panorama letterario, ora da gennaio nella “collezione letteraria” di puntoacapo editrice.
Più che un milanese, Galvagni sembra piuttosto un latino, o un portatore di colori e di luce mediterranea. In lui spira l’aria del mare, della libera natura. Egli è un sudamericano nato a Milano. Anche quando parla di Torino, vi porta “la canzone delle alghe” sotto “drappi d’astri” e avverte un femminile di “semplicità oceanica, … polvere impalpabile nell’edera del crepuscolo”, con “gemiti incessanti del fiore brunito” (p. 75). Di Mosca, ha fede che possa laggiù “trovare la patria del mio cuore… amando il mio viaggio felice” (p. 59).
La poesia iniziale che onora il padre, nient’affatto banale ma triste ed alta (p. 9): “su quei greti ci trovavamo,/padre,/ed era l’acuto silenzio/delle nostre illusioni,/la genesi/delle nostre buone intenzioni.”
Poi, due liriche sul poeta e sulla poesia (pp. 13-14), “siamo io e te, foglio/che mi sfidi… Il vaso di creta dei ricordi/annega di dolore il calamaio,/… scacciando i fantasmi della solitudine”.
Quindi il canzoniere, cioè quell’insieme – stilisticamente compatto – di poesie per la donna: non ho affatto intenzione di esaurire gli argomenti del libro con queste citazioni, ché non sarebbe possibile. Giusto l’essenziale, lasciando al lettore il piacere della scoperta.
Il tema della poesia di Galvagni è uno soltanto: la donna.
Il riferimento dei pochi dati di realtà non è a una sola donna, o almeno così sembra, ma all’universo femminile, a partire da una ragazza “reale” ma appartenente al trascorso, di cui si fornisce financo il nome, “conosciuta a 16 anni” (pp. 17 e 18), con cui l’amore fu “seminato con un possente aratro/in campi di stelle”.
E da lei parte la prodigiosa, variopinta, vitale e immaginifica figura della donna-natura, già dalla prima sezione, figura che si moltiplica, e diviene molte donne. Tutte. Forse troppe?
I suoi capelli sono corvini e onice (pp. 49, 60, 63, 72) o neri (p. 86) o corvini sono i suoi tratti (p. 83, 87; oppure biondi e d’oro o d’ambra (pp. 21, 22, 27, 28, 39, 59).
Gli occhi sono neri (pp. 72, 79, 88) o con “pagliuzze nere” (p. 81), oppure ramati o di quarzo (pp. 22, 32, 33, 35, 42, 65, 74) o nocciola (p. 22, 23, 27, 38), eppure “non nati” (p. 39). Lo sguardo, di cerbiatta (p. 25).
La lirica cortese di Galvagni si dà connotati sensuali e anche di realtà. Nello stesso tempo, la donna è l’oggetto del desiderio che, come tale, non viene mai raggiunto.
Anche se fossi dentro di te, non ti avrei: “perché sei inaccessibile nel momento medesimo/in cui afferro le tue natiche e colgo il fiore nudo” (p. 28). Dal tu al lei, si passa nella stessa poesia.
D’altro canto, si guarda a lei come dall’alto si guarda la terra: lei è “Bella come il mondo da una mongolfiera” (p. 87). Ti guardo come se ti possedessi, ma solo in certo senso, di lontano. E dunque, sempre, a partire da una separazione: “La mia bocca d’esilio vorrebbe mordere la tua carne” (p. 68).
Con tutto ciò, in quanto forse mai attinta, o forse appunto per questo, resta che la donna è la speranza di salvarsi la vita. La donna è la terra promessa. Troppo spesso la speranza crolla, a contatto con la realtà di ogni giorno: la poesia di Marco Galvagni rammenta il valore del sogno, parola che dal canto suo innumerevoli volte ricorre nei versi.
Sembra che il cielo stellato, così ricorrente, sia il cielo dell’immaginario e del sogno, che riacquista tutta la sua potenza, come polo e scaturigine delle immagini che offrono senso e forza al cammino.
La donna è desiderio di unità nel due, “nel dolce sogno d’una vita comune” (p. 40). D’essere condotto “per mano”, “verso una vita felice,/verso l’inferriata/che mi divide da me stesso” (p. 49); o anche, le si dice, “verso una vita lieta,/divelgi l’inferriata che mi divide/dal tuo sorriso che tutto occulta” (p. 53); colei con cui già (s’immagina) “Viviamo in un solo zampillio,/apparteniamo al porto più felice”, mentre “più oltre tutto è macerie” (p. 66).
La donna è desiderio, amore d’amore, da parte del poeta, desiderio d’essere desiderato (pp. 29, 61) e amato (pp. 29, 79).
Rimedio sicuro alla solitudine, più volte menzionata (pp. 36, 43, 44, 71) è in grado di sondare “la mia mente penetrando nell’anima” (p. 65).
Tanta ingenuità, se si assume il termine nel senso più nobile ed elevato, tanta laica e pur religiosa fede, meritano attenzione e lasciano pensare.
Certamente il riferimento è alla lirica d’amore, dai primi tempi dell’Occidente, inclusa una componente dionisiaca: “ballerò con le stelle una danza,/onda su onda la rugiada dei prati su cui ci rotoliamo/feriti d’amore dagli aghi di pino” (p. 31).
Certamente, è vero, la poesia di Galvagni trova un riferimento nella lirica cortese. Non proprio Dante: difatti, egli (per quanto di cortese in lui ricorra, e senza dimenticare le differenze) non menzionò mai i particolari del corpo dell’amata, se non nel senso di sublimarli o riferirli a una sfera superiore, come la menzione della bocca sta alla parola che edifica o al volto o al sorriso – in Galvagni invece compaiono, con chiaro riferimento erotico, le cosce bianche e snelle (p. 27), la farfalla oscura o il fiore brunito (pp. 28, 69), i seni “coppe d’argento del desiderio” (p. 28), tra cui “l’universo incolore/assume la forma delle fiamme” (p. 30), “due città sconfinate nel mare degli occhi” (p. 67), “morbidi seni poi turgidi/eretti a dismisura” (p. 74), visione di “turgidi” “seni verso il mio corpo” (p. 88); sono le notti e i giorni di gemiti straripanti (p. 37) – facendo seguito a una intonazione carnale che proviene anche dal medioevo. Non che la poesia delle corti, per il fatto d’esser tale, non comprendesse anche il corpo. Lo intendeva, e in molti casi, in qualche modo, vi mirava.
Mauro Ferrari, nella postfazione, avveduto del valore di questi versi, scrive che Galvagni è decisamente ispirato dalle radici della poesia occidentale, ripercorrendola tutta, compresa la tradizione cortese del medioevo; aggiungerei che ciò rischierebbe, se fosse l’unico carattere, di collocarlo fuori tempo, decisamente e da molti punti di vista. Ma intanto, mi sembra sia vero.
Tuttavia, oltre a concordare sullo spirito di tale collocazione, direi che c’è dell’altro, che non sfugge a Ferrari, quando egli accenna al “repertorio lirico-erotico” di questo poeta: qualcosa dei suoi versi lo rende modernamente antico, scrive Ferrari. È che, a mio avviso, la poesia di Galvagni arieggia qualcosa di sudamericano, certo con meno scaltrezza, per quanto possa servire il mestiere a conseguire la dimensione nella poesia, ma guadagnando per la via della freschezza d’ispirazione. Egli stesso, Galvagni, lo suggerisce, quando precisa che, oltre a una decina di composizioni riprese da altre sillogi, e che anche a mio parere stanno benissimo anche in questa, tutte le altre (non poche: una sessantina, e ben corpose) sono state scritte “in due mesi esatti: dall’ 8 aprile all’8 giugno 2019” (p. 89).
Poesia d’ispirazione e di forza, dunque.
Per via della straripante presenza femminile, fisica e sensuale ma insieme e di continuo sconfinante nell’atmosfera dell’immaginario, la poesia di Marco Galvagni risente anche della poesia latino-americana, che presumo l’autore conosca.
Come in Neruda, in qualche diverso modo, in questi versi prospera e fiorisce l’aggettivazione che disloca in maniera felice e generosa i sensi dei sostantivi usati.
Sono sue, di Neruda come di Galvagni, le esclamazioni, le enfasi per niente enfatiche, ma al tono giusto: “Ah mia mesta chimera…” (p. 29), “Ah lievi, pazze coppe agili… /Ah sapori, palpebre d’ala viva… /Ah cosce snelle di miele svestite” (p. 70).
Galvagni è quindi poeta greco, lirico e dionisiaco, o anche un poeta cortese del medioevo, che è nato nel Novecento e scrive nel ventunesimo secolo.
È mai esistita questa sua donna? Mi sembra dubbio, mi pare certo.
Mi sembra molto dubbio: per via dei riferimenti vaghi e molteplici, che rendono di volta in volta le molte dell’uno, l’universale femminile, più che la singolarità dell’esperienza in esistenza. A meno che non ci si riferisca a quella davvero nominata, la donna-origine. Ma non credo che basterebbe.
É certo, nel senso che, per questo dolcissimo e assai tormentato poeta, la figura femminile è il ricettacolo di tutto il desiderio, senza residui. E, al contempo, non è tanto detto ma s’intuisce, di tutta la pena d’esistere; lei, al tempo stesso grande sorgente, dannazione e figura consolatrice.
Carlo Di Legge