La pianta sul davanzale
chiede dove finiscono le foglie senza nome,
quelle che non scivolano negli scoli
Il titolo, “vora”, dell’ultima raccolta di Mara Venuto è stato definito, a partire dalla ottima prefazione, come sinonimo dialettale pugliese di voragine e inghiottitoio. Una parola molto giusta per significati innumerevoli, forse uno prevalente, che può comprenderli tutti: lo scorrere del tempo. Non solo in generale ma come vissuto in un certo contesto: si tratta degli “anni mangiati come i bordi di una foto” nel negozio “sotto casa”, anni che dicono della “nostra fragilità di fili d’erba/invisibili nella città sporca” (p. 24) come delle “vecchie foto di casa/in posa come non siamo/ci scopriamo finiti nei gesti” (p. 29); “… foto incuranti di trent’anni fa,/dove la messa a fuoco casuale/mostrava il ruolo che avevamo nel mondo/Lasciati soli a farci male” (p. 44).
L’importanza della fotografia, in chiave di rappresentazione della temporalità, è evidente nella poesia di Venuto. Consapevole che il tempo è la materia prima umana, dal punto di vista dell’autrice è pertanto rilevante “non cedere all’autolesione” (p. 26), la vita è “vita eroica” (p. 42) nonostante tutto, emerge l’“orgoglio” (p. 61), fino alla “forma adulta, che sa quanta lotta” (p. 27). In un attimo di uscita dalla fatalità degli eventi che ci toccano, si intravede il sacro (“Dare le spalle al passato, agli inceneritori… /In mezzo alla nuda bellezza dei gesti/… Mi inchino al lutto, alla perdita”, p. 25).
Vora è fin dall’apertura il dove (complesso) si cade (p. 15). È lo spettacolo delle cose in rapporto alla nostra scala esistenziale e dunque percettiva, nel quadro del tempo cosmico, come al cospetto di un dio indifferente – con effetti alla Mark Strand: “Non esiste più il luogo/e non esistiamo noi nel luogo” (p. 51); non facciamo nemmeno in tempo a esserci, che ecco, altri ci sono, sopraggiungono e noi non ci siamo più; non si tratta di una scelta, è che così vanno le cose e noi la chiamiamo infine fatalità. Tutto passa, si dice; ovvero “Qualsiasi clamore andrà a sbiadire” (p. 27); è l’avvertire la pochezza in cui ci si può trovare (p. 53), è senso della caducità (p. 54) e del degrado (p. 56).
Ma, seppure prevalente, questo senso dell’infinito inghiottitoio cosmico si integra con altri. Un ulteriore significato importante mi sembra reso nell’immagine della “piccola lepre bianca” a p. 57, o in quella dei gatti notturni:
I gatti si muovono la notte con gli occhi,
vanno dove non andrei, nei covi dei ragni
e di tutte le bestie che popolano il mondo,
fino ai buchi dei ricordi,
nella bocca di parole impotenti
a scrivere ciò che è stato.
È lì che più di tutto vorrei andare. (p. 36).
Il senso di questi versi viene espresso, a mio parere, nella contraddizione tra il “dove non andrei” del secondo verso citato e il “lì che più di tutto vorrei andare” dell’ultimo, entrambi inclusi nel senso generale della vora, perché la direzione dello sprofondare nel tempo, il senso del non-senso che è ancora alla nostra portata, non li possiamo invertire. Si tratta di un singolare avvertimento del tempo dell’esistenza, in cui al sapere di non voler andare nei buchi sporchi e spaventosi, risponde la volontà del dover/voler andarvi in parola, quella parola talvolta impotente a descrivere. Vora è anche il senso, qui presentissimo, della immensa lontananza del linguaggio dalle cose, o della parola dai suoi abissali possibili significati: “Gli altri,/una parola e la sua voragine,/una mortale separazione” (p. 60).
Mi pare utile soffermarmi anche sul ricorrere del concetto di “innocenza”, presente già dal terzo verso del libro (p. 15 e poi ovunque), come pure di “vergogna” e di “sporcizia”: a mio parere si tratta di una nota collettiva d’esistenza, vanno intesi come una specie di sentire etico, sulla scia di quello “sporco che chiede ragione/e finisce diviso dal bene” (p. 35). Il giorno della nascita dell’autrice è anche quello del tragico rapimento di Moro, si legge proprio in chiusura della raccolta (p. 64), forse a dire che non v’è gioia a cui non corrisponda lutto, o forse esprime anche altro: la sporcizia è il negativo aggiunto, “una croce sul foglio di giornale/a dire che è importante/una vita fra tutte” (ivi), è tragedia di tipo sociale e politico.
La notte è immagine del non saper vedere e della mancanza di coraggio di fronte alla colpa (“La notte non vede”, p. 23) perché nel buio, con-fusi tra gli oggetti, “Spezza sotto le suole esseri viventi” (ivi). Il negativo, tuttavia, quello di tipo socio-politico, fa corpo o è insieme, come in un sistema inestricabilmente connesso, con quello dell’esistenza individuale: è in aspetto di dura opposizione – “durezza” – senza equivoci e resa al “nemico” (p. 20; anche p. 21; il senso della morte a p. 22). Nei ricordi, anche quelli sensuali – “La notte di San Lorenzo cadevano i pudori” (p. 18), cessava un certo tipo di innocenza, il che, forse per questo, dava subito luogo a un diverso stato, il “sapere l’orrore di invecchiare” (ivi); innocenza è la controparte della vecchiaia che è quindi avvertita come fine dell’innocenza. “Guardiamo con occhi tondi/la soglia dell’innocenza/e trasaliamo più vecchi” (p. 35; così cfr. p. 46). Ed ecco che agisce la vora, “si apre il buco in cui sparire” (ivi). La consecutio – intreccio dei tempi diversi dell’esistenza singola, che si manifesta nel ricordo, cede al senso del consummatum est, invece che al sentimento della compiutezza che in qualche modo si è raggiunta.
Il linguaggio usato appare scarno, senza una parola di troppo, vigilato, a causa di una tensione interna che ancora chiamerei “etica”, anche nella scelta del linguaggio: solidarietà di tipo socio-politico a parte, tuttavia nemmeno si leggono facili indulgenze alla precarietà, alle percepite difficoltà d’altri, o non vengono esibite (cfr. p. 53: “Il portiere di notte…”; né emerge alcuna illusione sugli altri (p. 60). Si sta in guardia; dopotutto pure il tradimento appartiene alla nostra esperienza. Sorvegliarsi, dunque, è anche sorvegliare la parola usata. Il linguaggio forse consente di dire le cose, in ogni caso non le dovrebbe nascondere, non attenuare, non esagerare: al contempo, come dire le cose in parola, tanto più quando sono come sono, così estreme? È il caso della poesia a p. 36, che ho riportato poc’anzi quasi per intero.
Ecco la tensione tra la volontà di dire con verità e la difficoltà a rendere in parola consapevole, oppure/anche sincera:
Dell’edicola votiva un colore resta impresso,
l’azzurro degli occhi, tanto piccoli e stonati…
Sotto la nicchia che nasconde tutto,
il corpo e il dubbio, l’amore e l’impulso di oscurare,
si aduna un cane di passaggio attorno a qualcosa.
Resta il vuoto umano[…]
Un linguaggio asciutto, incisivo e senza concessioni, che pare voglia dire tutto, o quanto meno quel che è possibile dire al momento. Come la nicchia dell’edicola votiva che mostra e nasconde, e come la poesia, specialmente, e forse il linguaggio in generale che, senza volere, cela in sé e porta come un alone il non detto.
Vedo in definitiva nell’ultima raccolta di Mara Venuto un serio e interessante risultato della poesia. Usando tutta la possibile sincerità, che diventa spietatezza con sé stessa prima che con il lettore, l’autrice prova a definire una sua parola-immagine del tempo e della vita.
Carlo Di Legge
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Mara Venuto è nata a Taranto, vive a Ostuni. Tra le sue pubblicazioni premiate: i monologhi teatrali Leggimi nei pensieri (2008), The Monster (2015, testo finalista al Mario Fratti Award 2014 di New York per la drammaturgia italiana); le raccolte poetiche Gli impermeabili (2016), Questa polvere la sparge il vento (2019), La lingua della città (2021), Vora (2023). Ha collaborato con note testate giornalistiche pugliesi, televisive, cartacee e online; in qualità di ghostwriter ed editor ha curato romanzi di grande successo per editori nazionali come Mondadori, Piemme. Ha curato e pubblicato alcune antologie di prosa e poesia, tra cui un ciclo di volumi al femminile; è inclusa in numerose opere collettive di poesia, prosa e teatro; è presente in monografie critiche dedicate alla poesia italiana femminile contemporanea pubblicate da Macabor Editore. Recensioni di suoi libri e interviste sono apparse su quotidiani nazionali, come il Corriere della Sera, inserto domenicale La Lettura; La Repubblica, edizioni di Bari e Milano; Il Giornale; Il giorno. È stata ospite di Festival internazionali di Poesia, tra cui IX Festival di Poesia Slava a Varsavia nel 2016; XV Festival Trirema e poezisë Joniane a Saranda (Albania) nel 2021; XXVI Festival Ditët e Naimit a Tetova (Macedonia) nel 2022; I Festival internazionale Takohemi në Jug di Ksamil (Albania) nel 2023. Sue poesie sono state tradotte e pubblicate in sette lingue in riviste letterarie e antologie. Suoi testi originali e corti teatrali, a carattere prevalentemente sociale, sono stati rappresentati con successo di pubblico e critica. Il suo dramma Faith, dedicato alla tratta per sfruttamento sessuale delle donne africane, è in traduzione a firma dei Professori Emeriti della Saint Thomas University della Florida, Elisabeth Ferrero e James W. Conley, e sarà prossimamente pubblicato in doppia lingua.
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© Fotografia di Andrea Nicoletti.