La pubblicazione dell’opera completa della poetessa olandese M. Vasalis (Ensemble, 2020) rappresenta il bilancio di un’esistenza intera in versi, il confronto con la poetica di una vita attraverso il diverso rapporto con la parola nel trascorrere degli anni.
Ma non è tramite un mero rapporto di pesi e contrappesi che si può valutare quanto, nella traduzione di Patrizia Filia, viene consegnato nel testo; perché, invece, si tratta del rapporto diretto e immediato di una poesia, con le sue ricorrenze e differenze che si struttura nel corso del tempo, dalla cifra stilistica in apparenza semplice, audacemente nuda, coerente e progressiva, seppur scevra di ogni costrizione stilistica.
Questo sforzo di florilegio getta una luce su una poesia che squadra una necessità profonda di comunione con il prossimo e, dimorando nel bisogno della più intima condivisione, si specchia in negativo nella sempiterna compagnia della solitudine e della morte – vissuta in una poesia che aderisce nel suo lirismo alla vita della poetessa.
Fin da subito, e poi sempre di più nei testi, è bene precisare che nel testo ci si trova innanzi ad illuminazioni liriche di profondità abissale, ed idilli malinconici che, se non di risposta ad un eden distrutto dalla modernizzazione, si denotano per una cogente necessità di resistere alla percezione di un male sottile, che invade progressivamente ogni azione, fino ad esaurirlo.
Sin dalle prime battute dell’opera, la prima sezione del testo – Parchi e deserti del 1940 – enuclea quel che si può appuntare come tematica principale della poetica di Vasalis: l’ineluttabile disperazione derivante dalla guerra, le ricadute miserabili che ha (direttamente e non) sulle persone, e del terrore [13, 37] [1] che questa comporta tanto da spingere la poetessa ad intessere un profondo dialogo con la morte [17, 49, 20-21].
La solitaria sofferenza del prossimo, la tristezza improvvisa [41] che coglie l’animo dell’autrice alla mera vista di questi [27], e l’ineluttabile disperazione che lei, di rimbalzo, cova in seno risultano certamente il motore della scrittura.
Ma non solo questo è il carburante della poesia di Vasalis, perché è la coscienza e la consapevolezza di vivere il proprio tempo, e la sofferenza che si annida nella trama di fatti ed eventi, ad essere la linfa del suo scrivere.
Infatti, combattendo al fianco della poetessa una lotta invincibile con il tempo, il verso sembra aprirsi una fenditura nella stretta maglia di ferro forgiata dall’afflizione umana, spalancando su un idillio [33, 35, 53] naturalissimo, bucolico persino, che sembra recuperare un respiro di aria dall’apnea stagnante degli eventi. In questa dualità [53] dilaniante, e fra i denti del dolore quotidiano, si colloca il verso, esprimendosi poi sulle sfaccettature più intime dell’animo della scrivente.
Saranno infatti il ricordo [31] e la dolcezza ad affacciarsi sulla pagina, a dimostrazione di come (anche, se non soprattutto) nella poesia, ogni cosa possa essere se non salvata, almeno redenta nella tenerezza dell’umanità [43] che tutto avvolge in una grazia ormai dimenticata dall’essere umano, e dalla sua stirpe [33, 53].
Questo germe si radica nella modalità espressiva della poetessa, e scava una via nelle sue capacità per poi farle fruttificare nella seconda raccolta del 1947, La fenice.
Questo è il luogo in cui la presa lirica si concentra maggiormente, e ci consegna uno sguardo sul conflitto bellico in un sentimento di simbolica onnipotenza [61], contrapposto ad uno sconforto tragico, assimilabile all’impotenza dell’essere umano [59] innanzi alle sconfitte di ogni giorno.
In quest’opera la coscienza della poetessa viene trafitta dalla drammatica perdita del figlio di appena un anno [63], e dal lutto per la morte di questo; tant’è che la contemplazione del corpo gelido del piccolo [69] realizza in Vasalis un sentimento di attesa straniante [87, 95], o comunque di incapacità materiale nel concreto, da cui non sanerà mai – e con lei, la sua produzione artistica.
La scomparsa prematura del figlio trapassa perciò il petto e la poesia, il che si traduce espositivamente in un hapax dell’intera opera; concedendosi, perciò, nella fede della divinità giudaica (si notino la recita del Salmo ventitreesimo [101], l’allusione del Re, e della messianicità che ne scaturisce, accolti in questi testi).
Tuttavia si tratta di un riferimento biblico che, seppur importante in quell’istante dolente, però verrà abbandonato in seguito; probabilmente a causa della poca vicinanza al modello culturale, oppure non trovando una misura soddisfacente nell’elaborazione della morte.
Non di meno, assistiamo nuovamente all’attitudine idilliaca di Vasalis, nel suo sfociare nel simbolico [79, 84-85], per poi estendersi al limite del visionario, ed introdursi a sua volta nel mitico e nel mitologico [59, 61].
Si potrebbe riflettere che questa chiamata a dischiudere il dettato, aprendolo alla visione e al pindarico, all’orfico persino – passando per uno stile comunque arioso, armonico e non costrittivo della materia versificata – siano da intendersi come fughe alate dalle pastoie del dolore quotidiano.
Perciò il sogno, o meglio la visionarietà, e lo sguardo della poetessa a cui non sfugge nessun elemento della fauna e della flora, costituiscono una volta scritti nell’opera un’evasione (più o meno consapevole) dalla realtà orrenda a cui si è costretti.
Nondimeno – e meglio – questa tensione potrebbe identificarsi come mezzo tramite il quale poter ambire ad un luogo ameno, finalmente incontaminato dall’incomprensibile sofferenza dell’umanità, ove poter esorcizzare l’ostilità degli eventi, e il dramma che trapunge l’esistente.
La terza tappa, raccolta a seguito della quale è nominata l’interezza del corpo artistico, consiste in Visioni e volti – composta nel 1954, e consistente nell’ultima raccolta consegnata di suo pugno ai lettori.
Questa si conferma fondamentale, oltre che per la nominazione del testo, anche per coagulare i nuclei concettuali di cui la poetica di Vasalis si districa nella chiarezza dello stile, denotandosi per la limpidezza intenzionale del canto, di cui lei si è dimostrata capace.
Il testo squadra già dall’esordio [109] una tematica paesaggistica, per poi ricondurla istantaneamente nel mito; così sfiorando le tematiche della giovinezza invitta e gloriosa, e raccogliendo così le trame della tematica mitica già esposta in nuce nell’opera precedente. È tuttavia argomento transitorio e marginale, dal che in quest’opera si materia più che mai l’osservazione di soggetti esterni – ma non certamente estranei – all’autrice.
Ma è più l’assenza [113] di questi a compendiarne il senso ultimo da cui trarne il dettato, e la morte stessa diventa essere puro [115], o almeno figurato con delle mani immense [175] – che ogni cosa questa monda nella sua presenza concreta, e nel suo patronato silente ogni cosa riceve.
Ma ciò che più stupisce è la lucidità espositiva anche del dramma, interiorizzato ma non superato, della perdita delle figure amate e della lontananza dell’amato [117] a smarginare nella sottrazione – contestualmente – di ogni riferimento metafisico imposto da un sistema fisso, ribadendo questo in due circostanze [159, 163] l’inimmaginabilità e l’inconsistenza di uno schema metafisico in cui riporre se non la speranza, almeno la fede.
Saranno piuttosto la sacralità [119], declinata nel certo “impenetrabile mistero fisso” [121] che questa comporta, ad intessere la ragione dello scrivere poetico; e parimenti è l’osservazione estatica dell’enigma indovato nella natura e nell’animalità [153, 213, 215] ad enucleare la ricerca nell’arcano dell’animato, senza però la presunzione di poterlo risolvere, a rendere grande il verso di Vasalis, e la poetessa con esso.
Il lirismo proprio, in questa sede, si prolunga ed al contempo si assottiglia in una forma di intimismo pregno di ogni sofferenza, per giungere all’appartenenza completa “al versetto” [129] da scrivere, al sogno che non si vuole (né si può, forse) abbandonare.
Lo stesso stile espressivo segue un miraggio, eleggendo a propria intangibilità il canone esatto per avvicendarsi all’elegia amorosa di quanto perduto, e ben sa modularsi per avvolgere la materia che ha innanzi – approcciando spesso anche uno stile gnomico [211], più affine alla consapevolezza delle sorti della vita che l’età matura comporta.
La quarta sezione, conclusiva del testo e denominata La vecchia linea costiera, consiste in un corpo di componimenti postumo, collezionati dagli eredi di M. Vasalis nel 2002.
Lo sforzo critico, in questo caso, non può non riflettere attorno all’ipotesi per cui questi elaborati fossero volutamente omessi dall’autrice; non di meno, tuttavia, ricorrono in quest’antologia tutte le sue materie, e potremmo valutarle di conseguenza come una sorta di compendio di quanto non volitivamente consegnato alle stampe, non di meno sintesi estrema di tutti i topoi di Vasalis.
Così vedremo la solitudine assoluta staffilare l’anima, scontrarsi con il bisogno di condividere intimamente con il prossimo e compartecipare alla vita altrui [316], e l’elementarità del vento [229] scontrarsi con la stasi massima e plumbea [321] della cortina degli eventi [293].
Ritornano così sia l’assurdità del vuoto [275] e del lutto [235, 265], come ritornano alla memoria e al verso le immagini della madre morente [249] che si accostano a fotogrammi della professione di psichiatra [245]; e si affiancano alla misura sognante dell’autrice: la vaghezza e il miraggio qui si immergono evolvono e si incardinano nella dimensione del sonno per tendere la mano al ricordo della propria giovinezza che si scontra con l’ormai inevitabile decadimento fisico [279, 291].
Il lirismo [313, 315] intimissimo si propone ancora in aperto conflitto con il proprio tempo [299, 301], lasciandosi tuttavia compenetrare infinitamente dalle minuzie giornaliere [295], redimendole nell’affettuosità riparatrice della poesia [231] contrapposta all’austerità della storia [239].
Interessante è poi riflettere di come l’egloga di Vasalis non perda il proprio tenore esornativo anche alla vista delle scene che si dipingono sulle campiture urbane; nonostante, di quando in quando, si rompa nuovamente la solidità del reale, e sarà responsabilità del verso coglierne sia l’assurdità di fondo [275], sia la disarmonia dell’esistenza [289, 277] nella sua totale angoscia, senza però accecarsi innanzi alla meraviglia che risorge dal dualismo del notturno.
Concludendo, in questi testi successivi alla morte di lei, l’ombra [271] e la grazia [297] declinano non una trappola seduttiva del rifiuto delle difficoltà del reale, sempre maggiori e sempre costanti, ma una vera e sostanziale esigenza di aria fresca e libertà – con l’inevitabile risultato di recuperare anche la rara possibilità di gratificazione, consistente ed autentica, per farne poesia.
* * *
Da “Parchi e deserti”, 1940
LA MORTE
La Morte m’indica piccole, interessanti cose:
questo è un chiodo – disse la Morte – e questa una corda.
La guardo, una bambina. È la mia maestra
poiché l’ammiri e ne ho fiducia,
la Morte.
M’indica tutto: pozioni, pastiglie,
pistole, rubinetti del gas, tetti ripidi,
una vasca, un rasoio, un lenzuolo bianco
‘così’ – qualora io volessi
la morte.
E prima d’andarsene, mi diede anche un piccolo ritrattino…
‘Non so, se te lo eri già scordato,
potrebbe forse tornare utile
qualora tu non volessi più
morire,
ma chi te lo impedisce?’
disse la Morte.
*
LA SCONOSCIUTA DEL FIUME AMSTEL
Camminato al buio nella vasta notte
la lingua ancora fiacca per l’insensato parlare
e lei… allungata in mezzo a due soldati,
capelli neri bagnati e occhi aperti;
non giovane, corposa, con guance pietrificate
irrigidita nel suo monumento,
i piedi nudi, granelli di sabbia appiccicati
alla sua pelle soda, le gonne appese
come bandiere in una pioggia torrenziale.
Seguo lo sguardo degli occhi spenti:
in alto come su una magnifica spiaggia
vedo nella sabbia azzurra del cielo
dolcemente circoscritta dall’alga delle nubi
il bianco volto della silente luna,
che segue – come lei – la sua orbita.
*
Da “La fenice”, 1947
FIGLIO
C’era un lieve calore sopra il suo volto,
come della terra di sera, quando il sole sparisce.
E come il vento in un tendaggio, lieve
il suo respiro entrava e usciva dalle sue labbra…
Lui era la vita, visibile quasi senza scorza
e nient’altro che vita, versata fino all’orlo
e senza macchia od ombra sprofondata
e ascesa nella frale brocca.
Com’era ancora ampio il passaggio verso la vita
e come accessibile per il suo flusso e riflusso…
Come lieve e silente e bello è con la morte
rimasto solo sulla spiaggia vuota.
*
VISIONE
A volte vedo nel mio sogno scaturiti
dalle mie bianche lenzuola, nella grigia
e sottile filatura della luce del mattino
le vostre spalle e il vostro viso bianchi.
Le spalle come un arco sollevato,
e tremante a me rivolto
il vostro sguardo, una freccia di pura luce
accennate alla mia vita più profonda.
Mezzo sollevata su un braccio magro
come voi stesso mortalmente ferito,
sanguinando sul farsi del mattino
vedo le vostre labbra tremare afflitte.
E prima che la freccia scocchi
avete chiuso gli occhi
e sorriso, avete perdonato
e mi condannate a continuare a vivere.
*
Da “Visioni e volti”, 1954
[Come un cane che annega morde le mani dei suoi soccorritori]
Come un cane che annega morde le mani dei suoi soccorritori
così il mio sentire morde il pensiero salvifico,
che questo pericolo passi e che simili notti
ancora una volta s’estingueranno nel tempo.
La prima ad annegare è l’aspettativa
la speranza agonizza. Ma il ricordo
lotta ostinato. Amato!
*
[I campi stesi inespressi nella luce]
I campi stesi inespressi nella luce
Le mucche, così sovente dipinte,
precludono con occhio giovane, umido
ogni descrizione del loro caldo arcano.
*
Da “La vecchia linea costiera – Poesie omesse”, 2002
SUB FINEM
Sopra i tuoi occhi rivelo la piccola ruga
per il penoso sforzo, come se
in ultimo tu sia costretta per forza di cose
a svelare l’enigma – ciò che la tua bocca
– orizzontale parentesi – già da tempo
ha compreso e riassume.
*
[Un tempo uccelli alla finestra]
Prima uccelli alla finestra,
ora sottili farfalle
senza voce e quasi immateriali.
È proprio ora di partire.
* * *
M. Vasalis (1909-1998), pseudonimo di Margaretha Leenmans, è stata una poetessa e psichiatra olandese. Il suo debutto risale al 1936 con la pubblicazione di cinque poesie in una rivista letteraria. Nel 1940 esce la sua prima raccolta, Parken en woestijnen, cui segue nel 1947 De vogel Phoenix, il cui tema è la perdita prematura di uno dei suoi tre gli. La sua terza raccolta, Vergezichten en gezichten, pubblicata nel 1954, le valse il premio per la poesia del Comune di Amsterdam. Tra i premi ricevuti si ricordano il Constantijn Huygens nel 1974 e il P.C. Hooft nel 1982. Dopo la sua morte è uscita, nel 2002, De oude kustlijn, raccolta curata dai figli.
Patrizia Filia (1953) è nata nel 1953 in Savoia da genitori sardi, ha vissuto vent’anni a Torino e vive dal 1982 nei Paesi Bassi. È regista teatrale, drammaturga, scrittrice e traduttrice. Da Edizioni Ensemble sono uscite, oltre a Visioni e volti di M. Vasalis, le seguenti sue traduzioni: L’eterna imbarcazione con poesie di Jan Jacob Slauerhoff; Ho comprato una bicicletta di Gershwin Bonevacia; Il mare ha fame di Kira Wuck; Bokman: uomo caprone di Dean Bowen; Habitus di Radna Fabias e La memoria del corpo di Marieke Lucas Rijneveld.
© Collezione Literatuurmuseum. La fotografia ritrae M. Vasalis nel 1948 circa.
[1] D’ora in poi, il numero di pagina verrà racchiuso tra due parentesi quadrate. Il testo di riferimento per ciascun numero è “Visioni e volti” di M. Vasalis, tradotto da Patrizia Filia (Ensemble, 2020).