Lorenzo Allegrini classe 1982, è giornalista, poeta e autore teatrale. Ha pubblicato i poemi “La leggenda del Capo di Buona Speranza” (Edizioni Il Viandante, 2021) e “Apocalisse Pop!” (Edizioni Il Viandante, 2018), presentati in un tour di performance di oltre 50 date in tutta Italia e all’estero, in Svizzera, Portogallo e Belgio, dove peraltro si esibito nel contesto dell’Istituto Italiano di Cultura a Bruxelles. Inoltre, due suoi testi teatrali sono andati in scena: “Rabbit! – La mossa del coniglio” (2015) e “Anarcord – L’ulcera dell’anarchico Fabbri” (2018-2019). Dopo aver collaborato con alcune delle principali testate di media e quotidiani nazionali, si è occupato per dieci anni di economia e finanza per l’agenzia di stampa LaPresse prima di passare alla comunicazione aziendale. Ha un blog di poesia su Huffington Post.
* * *
I
Ogni stagione stupenda fu stupida.
A Perugia lo tenemmo nascosto
tra i vicoli acri. Mentre pisciavamo
si vedeva tutto: due che scopavano,
le siringhe usate col metadone
che provavamo a colpire col getto,
un arcobaleno caldo e schiumoso,
il nostro giovane corpo riflesso
dalle vetrine, la superbia arcuata
di un pene flaccido in cerca di sesso,
la smorfia che disserrava la bocca
fino a spalancarsi nel suo massacro,
ovvero la risata. Era permesso
di essere liberi davvero, amici!
La dama medievale era una facile.
Nella notte ci spingeva all’eccesso
nei saliscendi di una stampa di Escher
a noi studenti squattrinati, gracili
per l’abuso di fumo, traboccanti
con teste potenti, piene di libri
e di rivoluzioni inattuabili.
*
II
Quella stagione stupenda fu semplice:
sopra di noi il cielo, intorno una vista
di verde feudale, e in noi un tempo eterno,
a bivaccare in piazza sulle scale
come piccioni o sdraiati sul prato
di San Francesco, come fiori spaiati
che profumavano di hashish e birra.
Fu in questo bel contesto, spensierato
(peraltro, assassinato con Meredith)
che un pomeriggio mi parlai con Dio.
Credo non mi capitasse da quando
da bambino frequentavo la messa:
lo pregavo di far vincere il Milan,
e una volta rimontammo al Pescara
quattro gol, che dovetti ringraziarlo
anche se questo do ut des mi pesava.
Ero in uno degli appartamenti umidi
in cui affittai una stanza, uno stambugio
in Porta Pesa, festeggiavo un esame
e la coinquilina dal viso candido
disse con insolito colorito
che il fidanzato le aveva lasciato
una droga, la salvia divinorum,
che non era addentrarsi nella selva
che tutti sapevamo, ma di più!
*
III
Era un’erbetta secca, plasticosa
ed era consigliato farsi a turno.
Si diceva fosse pericolosa,
ma che poteva farci, a noi abituati
a ciuffi ben più odorosi e pungenti?
Non eravamo affatto impressionati
e caricammo la gola del bong
con la curiosità dello studente.
Per prima andò lei. Ma che sceneggiata!
Come le risuonasse in testa un gong,
vagava per la stanza e balbettava
con l’espressione di un giallo epatite.
Il viaggio durava pochi minuti,
era come una sveltina, per dire.
Al risveglio, la coinquilina aveva
occhi da gatto quando è minacciato
e nessuna voglia di condividere.
Mi passò il sacchetto per liberarsene.
Era il mio turno. Riempii la pipetta,
aspirai forte e sentii nei polmoni
entrarmi il fumo, lieve come un soffio:
se era Dio, Dio è una cosa delicata
che intossica direttamente l’anima.
Mi fu addosso il copriletto tigrato,
ma nel balzo si sollevò come un canyon,
che effetto (!), pensai, ma
precipitai
come un
bungee jumping
dimenticai
che mi ero drogato
si frammentò
tutto il mondo
dove sono
le cose?
vedo solo
geometrie colorate
non ci sono
che simmetrie
disposte
dov’è
il mio corpo?
se cerco
il mio braccio
si muove
tutto questo
stagno elettrico
non c’è più
alcun peso
che sia la morte?
allora Dio
finalmente
ti trovo!
sei questa luce
che passa
attraverso
spiegami adesso
le malattie
il male
a me
che avrei fatto
un mondo diverso
anche a Pescara
non fosti tu
fu
Van Basten
a fare tripletta
quindi
io sono pronto
ti spodesterei
se non fossimo
tutti
questa luce
che viaggia
ovunque
su reti
binarie
e ora si ricompone,
vidi il letto
l’armadio, rieccomi di carne, il braccio,
mi dolevano i muscoli, sudavo,
ero vestito, ma mi sentii nudo
e mi fiondai per pudore sul divano,
raggrinzito, in posizione fetale
con il pene nascosto tra le gambe.
Da allora, quando fumavo una canna
la sensazione non era più uguale:
vivevo il disagio di essere un veicolo
insulso,
non me,
ma volontà patetica
un giorno destinata a ritornare
all’elettricità da cui arrivò,
come ogni onda, che la risucchia il mare.