Lina Sanniti, Madre di parole (deComporre 2017).
Lettura di Eleonora Rimolo
Madre di parole è un libro scritto con dolcezza e che parla di dolcezza, nell’accezione più amplia del termine. L’autrice riesce a delineare con una delicatezza disarmante le questioni più spinose del vivere, attraversando strade che “hanno passi di sangue” con “il garbo della ragazza semplice”. Le tenerezze dell’infanzia oramai lontano ci restituiscono immagini pungenti di padri, madri, famiglie aggrappate alla propria sopravvivenza di povertà con tutto il loro genuino desiderio di vita (“a noi numerose famiglie pietose”). La descrizione dei luoghi è precisa, circoscritta agli oggetti-simbolo di una quotidianità alienante ma in cui ci si rifugia sempre, per scelta o per necessità (“Le ore del mattino sono oro da lucidare”): in queste atmosfere soffuse, che non feriscono né scuotono mai con violenza il lettore, bensì lo tengono per mano lungo un percorso di velata malinconia, trascorrono gli anni e Lina Sanniti si ritrova ad osservare la dimensione della giovinezza dal lato opposto, quello della maturità, con uno sguardo disilluso ma sempre onesto (“I ragazzi di qui / si credono leoni […] e si perdono nella bocca del giorno”). In una Napoli che “ancora si arrende al mistero” cose e persone si confondono e creano un disordine di fondo da cui l’animo del poeta sente di voler fuggire, per ritrovarsi nelle sue intime “parentesi affettive”, in cui gli incontri, gli addii, le separazioni, non sono che momenti passeggeri di un percorso di senso che non si realizza mai del tutto ma di cui riusciamo ad intravederne i confini. Gli amori passano, le certezze si sgretolano dentro un’inquietudine che forse “non avrà una sosta”, e nel cuore di chi vive immerso dentro una solitudine senza via d’uscita calano il silenzio e l’indifferenza: “sono terra di nessuno / da sempre arida e senza sete”. L’ultima sezione del libro, che appunto si intitola anch’essa “Madre di parole”, scandaglia le conseguenze emotive di tale inaridimento, dichiarando che “non sono madre di niente se non di parole”: l’idea della maternità mancata, quasi sottratta da un destino casuale, cerca disperatamente una compensazione nella parola, nella potenza comunicativa del verso, che è la modalità con cui – in definitiva – Lina Sanniti ama e si lascia amare. Resta intatta, dal principio alla fine del libro, la richiesta di un asilo, il desidero di un punto fermo attorno a cui ruotare e per cui fermarsi (“Volevo affidare quel poco di me / al primo campanile solitario / o all’ultima bocca non ancora cucita”), la gioia delle piccole cose, e la promessa di continuare, sempre e nonostante tutto, a fissare “un punto all’orizzonte” per coltivare la speranza in un mondo che, sebbene temporaneamente, ci appartiene e ci tiene ben oltre la nostra volontà (“Se il Tempo è mio, il mondo è mio”) disegnando trame a noi sconosciute ma proprio per questo meritevoli di essere districate attraverso il balsamo della poesia.