Lettura personale di Davide Morelli de “Le campane” di Silvia Bre:
Sarei pleonastico se mi dilungassi troppo sui meriti e sul talento della poetessa, che è autrice Einaudi ed è una voce ormai riconosciuta a livello internazionale. A testimonianza della bellezza di questa raccolta va detto che è esaurita, tant’è che ho dovuto leggere il pdf. Le poesie sono suggestive, colme di spunti. La dizione poetica ė di alto livello, sia dal punto di vista stilistico che contenutistico e tematico. Sono innumerevoli i momenti alti, per così dire di massima intensità. È una poesia felicemente compiuta con una sua precisa fisionomia, scaturita da un background di vasto respiro. Senza stare troppo a cercare i contenuti manifesti e quelli latenti si può intuire che la poetessa compia con la scrittura il suo percorso di individuazione, non esplicitando mai traumi o nevrosi, ormai comuni ai più. Ma passiamo quindi a quelle che ritengo le caratteristiche di questi memorabili componimenti. La poesia della Bre fa intravedere l’inaccessibilità dell’essere al linguaggio e l’inconoscibilità del Sé. Esiste il mistero, l’enigma, l’ignoto, che ci irretisce e ci angoscia. In Silvia Bre abbiamo la nominazione del mistero tra slanci poetici e riflessioni. La sua è una poesia contrassegnata dal dolore, che restituisce in questo senso fedelmente la vita. Potrei affermare che la poetessa ipostatizza il dolore interiore, quello che gli psicologi chiamano dolore esistenziale. Come disse Buddha la consapevolezza è dolore: talvolta anche la “comprensione assoluta” dà dolore. C’è nelle sue liriche il senso della fine, e nonostante ciò non si fa prendere mai dallo sconforto o dall’effusione, rimanendo ancorata alla tradizione ed essendo con tutta sé stessa salda alla quotidianità. Il Dalai Lama ha detto che gli uomini occidentali vivono come se fossero immortali. Tiziano Terzani ha scritto che la morte oggi viene sempre nascosta in Occidente. La Bre ricorda coi suoi versi la mortalità all’uomo contemporaneo, condannato a vivere in un “eterno presente”. Non sempre si riesce a comprendere la sua poesia, non perché è incomprensibile linguisticamente ma perché esprime l’incomprensibilità della vita e della morte. La sua poesia si ferma alla soglia di quello che Ungaretti chiamava “l’inesprimibile nulla”. Oltre nessuno riesce ad andare. L’oscurità in lei non è caos informe, non è nemmeno mancanza di capacità comunicativa come in alcuni ma cifra dell’assurdo senza necessariamente diventare cifra trascendente. Secondo la mappa della poesia italiana contemporanea di Laura Pugno la Bre sarebbe una poetessa soggettiva (caratterizzata dalla presenza di Io+Assertività+Affettività). Non mi trova d’accordo questa classificazione. Innanzitutto il concetto di polarità su cui si basano queste distinzioni a mio avviso è troppo schematico, così come troppi sono gli esclusi/e importanti del saggio. Per la Bre a mio modesto avviso ogni cosa del mondo – anche la più insignificante apparentemente – può divenire metafora. La poetessa non eccede mai. È tesa all’essenziale, è sintetica perché sa che il mondo può apparire sia un ammasso informe che una selva di simboli da cui non si riesce a districarsi. Per la morale il mondo può apparire una Babilonia, per la logica una Babele. Il mondo può risultare enigmatico, la sua fisionomia sfuggente e le verità di ieri il giorno dopo possono apparire antiquate e fuorvianti. La Bre comunque non sceglie esclusivamente l’io o il mondo, ma riesce a descrivere la relazione tra io e mondo. Avverto che la sua poesia è frutto di meditazione, diventa addirittura preghiera, ma non è mai troppo centrata sull’io. Poi chi fa meditazione da anni sa che l’io ritorna sempre nei modi e nelle forme più disparate; il vuoto mentale è difficile da raggiungere. Rimuovere l’io lirico significa solo declinare la propria interiorità irrinunciabile con altri pronomi. La poetessa ha il merito di non occultare l’io, di non nasconderlo sotto il tappeto. Il mondo non è fatto solo di cose è soprattutto intersoggettivo, cioè costituito da una miriade di io. Allo stesso tempo sembra che la poetessa canti la “coscienza cosmica”, che secondo Roger Penrose anima tutte le cose, a cominciare dalle particelle elementari, o almeno si percepisce la sensazione che vorrebbe abbracciare il mondo. Nel suo essere “cosmico-esistenziale”, pur avendo dei tratti stilistici completamente diversi, questa raccolta può essere accostata a “Credere nell’invisibile” di Cesare Viviani. Inoltre, pur essendo più colta, distaccata e letteraria la Bre si rapporta con la morte in modo simile a Kenneth Patchen in “Accettiamo la follia” e “College all’angolo della via”.
“Take it easy”, dicono gli anglofoni, e poi ancora: “no brain, no pain”. Ma così facendo si finisce per vivere la vita troppo alla leggera. La vita invece, per la Bre, è giustamente una cosa tragica, che però non fa scadere nel patetico: come scrisse Bufalino, i suicidi sono solo degli impazienti. Tutto può essere perturbante e latore di epifanie, ma l’unica cosa veramente cogente nella poetessa è l’interrogazione sulla morte. Le campane, che un tempo scandivano la vita di tutti, simboleggiano la morte. Più che l’influsso di Emily Dickinson avverto lo stesso modo di approcciare questa tematica di Auden negli “Shorts” (pensieri intorno alla propria morte/ come il rombo lontano/ di un tuono a un picnic”). Ritengo che un altro riferimento, forse una semplice eco, sia “Domenica mattina” di Wallace Stevens. In Milo De Angelis troviamo invece delle “sirene lontane”, come funesto presagio. Ma le campane in questa raccolta sono il leit motiv, a differenza del poeta milanese. Siamo comunque tutti attanagliati dall’incertezza e dalla precarietà dell’esistenza, sembra dirci la poetessa; ciascuno di noi deve fare i conti con la paura del divenire, dell’infinito e della morte. Il parlare comune è abuso perpetrato sulle parole, è rinuncia quotidiana alla particolarità, singolarità, irripetibilità insita in ciascuno. La poesia della Bre, invece, non è riproduzione del reale, ma emanazione, intuizione, rischiaramento. Possono esserci periodi in cui non si scrive niente e magari si incamerano malumori… Ma poi, all’improvviso, qualcosa ci fa vibrare dentro come una corda: un’impressione, un dettaglio insignificante, un’idea che non si sa dove è nata, però sappiamo che deve essere fermata. Si scrive dunque e non per puro piacere, ma perché è un’attività che può significare l’inizio di una libertà interiore. Sono tutte considerazioni che nascono dalla lettura della poesia della Bre.
Come scrive nelle sue “Ricapitolazioni” Octavio Paz, premio Nobel per la letteratura nel 1990, “non è poeta chi non abbia sentito la tentazione di distruggere il linguaggio o di crearne un altro, chi non abbia provato il fascino della non-significazione e quello, non meno terrificante della significazione indicibile”. Ebbene mai come in questi ultimi decenni i poeti hanno cercato di distruggere il linguaggio poetico: forse un tentativo di distruzione per poi successivamente ricostruire dalle macerie. La poetessa invece esprime “la significazione indicibile”. Il grande mistero umano è, per dirla alla Guccini, “questo intreccio di vita e morte”, questa compresenza continua di creazione e distruzione. Ma esiste anche il mistero degli incontri, degli abbandoni, degli addii. Le vite si sfiorano, si intrecciano, si combaciano, si compenetrano, si aggrovigliano, si allontanano, si evitano. Non sapremo mai neanche chi è dalla parte del torto e chi dalla parte della ragione. Non si può far altro che presumere. Ma cosa resterà di noi? Forse resterà una traccia? I nostri saranno per i posteri dei graffiti preistorici oppure non rimarrà nulla in futuro? Noi dovremmo specchiarci nel nostro passato remoto, quando il sangue fecondava la terra, le semine e i raccolti scandivano la vita. Dovremmo specchiarci nel nostro passato remoto quando i giovani morivano in guerra e le donne morivano di parto. La prima parte della raccolta, non a caso, è ispirata dalle Grotte di Chauvet, uno dei più importanti siti preistorici, testimonianza di come l’uomo sia sempre stato un “animale simbolico”. Dovremmo perciò ricordarci che anche noi potremmo essere “il futuro di qualcuno”. L’intera raccolta crea un legame tra la morte individuale (le campane) e la continuità, l’eternità della specie (le grotte di Chauvet). È su questo connubio che avviene il dramma e al contempo l’investigazione poetica della Bre:
L’apparire di sparsi movimenti
del sole, delle strisce lunari
poi nella loro luce gli animali
tra foglie tutte nuove
disegni, come i gesti delle fate
e dei maghi
discendere da loro
in un destino
nel fumo
negli spazi
essere stati il futuro di qualcuno.
La logica deduttiva non basta, perché il principio di non contraddizione non può niente sulla contraddittorietà del reale. Ogni opera d’arte è un tassello per il mosaico della cultura umana. Non a caso di un’opera d’arte si dice oggi che ha contenuto di verità. Questa raccolta della Bre è poesia pura: accusatemi pure di essere tra i laudatores.
La verità della scienza è sempre provvisoria e perfettibile, anche se è conoscenza oggettiva. La verità umana (quando è presente nell’arte) invece secondo me è sempre parziale. Essa può essere verità che racchiude il sentire oppure il pensare. Per verità nell’arte si intende una rivelazione (non certo un’ovvietà priva di praticità), spesso causata da un continuo interrogarsi come nella Bre. La verità interiore comprende la descrizione di stati d’animo, stati mentali, associazioni, illuminazioni, sentenze, impressioni, percezioni, riflessioni, pensieri metafisici, considerazioni filosofiche ed esistenziali. A tal proposito Sant’Agostino scriveva che “la verità abita nell’interiorità dell’uomo”. Silvia Bre si rivela più una poetessa esistenziale che metafisica, poiché rifugge le fredde speculazioni e i suoi rovelli appartengono a tutti: forse non è per tutti ma parla sicuramente a nome di tutti.
Comunque la scrittura della Bre origina non solo da spunti meditativi ma anche da felici intuizioni e folgorazioni. In questo senso la poesia della Bre è anche verità sulla condizione umana perché sa rintracciare le problematicità di ognuno di noi, pur mantenendosene a distanza. Leggendola si ha la netta sensazione che abbia grande esperienza della natura umana; sa quali sono le costanti psicologiche, antropologiche, metafisiche. Tutto è espresso toccando lo zenit del lirismo. Ecco un suo brillante componimento:
La luce di qualche verità
qui è eclissi
gli sguardi le cantano il buio.
Anche la grammatica fa
il suo salto mortale
e non lo sbaglia e muore.
E se oggi non possiamo più dirci orfici perché non crediamo in concetti come quelli di anima, né crediamo che nell’uomo alberghi il divino, e il culto di Dioniso è ormai un retaggio del passato, possiamo solo ormai affidarci alla poesia come espressione della razionalità e del sentire (per quel che è possibile). La parola poetica a nostro avviso può dirci sempre qualcosa di nuovo sul mondo e sull’animo umano. La parola poetica può mettere ordine nel mondo: innanzitutto nel mondo interiore di chi scrive. Da questo punto di vista non riteniamo che la bellezza sia verità, ma che l’espressione poetica-filosofica possa condurre alla verità umana (per quanto sempre provvisoria, instabile, mai definitiva). La poesia della Bre è ad alto coefficiente intellettuale, ma al contempo riesce a penetrare nell’intimo, a far vibrare l’interiorità, perché il suo sguardo è sempre partecipe. Tratta dell’alienazione, dell’inesprimibile, dell’indicibile, della morte, e affrontandoli a spada tratta li trascende.
Tra gli eletti dal male a guarirlo
nella lingua che lo dice, la cura
del ramo spinato che urtato da un fiato
sibila e ti tiene sveglio e ti addormenta,
non sai quale madre detta la misura
nell’azzurra lacuna da vedere
se contro la luce della morte
una navata canta la sua carità per questa gleba.
Suonata a senso dalle campane
per timone le tenebre
mi ruota nello scheletro la nube di una luna,
questa infamia fedele di beata.
Nel mondo contemporaneo per aumentare il profitto le enti e aziende perseguono una maggiore performatività. Per una maggiore efficienza tutti devono rispettare le norme, rispettare i ruoli e le funzioni, svolgere i compiti e le operazioni assegnate. La società non può correggere questa tendenza, perché se lo facesse molto probabilmente il sistema imploderebbe. Allora è costretta a snaturare l’uomo e a creare nuove tipologie umane e nuovi modi di essere in funzione delle esigenze lavorative. Ma l’uomo non è solo lavoratore. Non è solo produttore. E’ anche consumatore. Quindi il mercato per non esaurirsi crea continuamente nuovi bisogni, e con questi nuovi uomini. L’uomo moderno è quindi doppiamente snaturato, doppiamente alienato. Niente deve inceppare l’ingranaggio. Anche un semplice granello di sabbia può inceppare il meccanismo. Ogni umanista è visto quasi come un sabotatore. La filosofia, la letteratura, la poesia sono quindi pericolose per il sistema perché possono creare degli umanisti, che esercitano nella vita il loro senso critico e la loro autonomia di pensiero. Ecco perché la poesia viene considerata inutile dalla società odierna (fondata sulla razionalità tecnologica e scientifica). Allo stesso tempo filosofie astruse vengono considerate le migliori a prescindere. Ma con esse non si può creare una nuova cultura occidentale. Sono innocue. Sono filosofie che non riescono a dare nessuna buona novella all’uomo contemporaneo. In esse non è contemplata la dimensione della speranza. La Bre invece chiude la sua raccolta con “Poi l’aurora” ed è indicativo, anche se i poeti “non sono mai nessuno” di fronte alle tragedie di quest’epoca. I poeti non possono essere incisivi nella realtà come artisti, ma al massimo possono dare il loro piccolo contributo come uomini. Non hanno voce in capitolo. Hölderlin si chiede: “Perché i poeti nel tempo della povertà?”. Heidegger riprende questa domanda e anche lui sostiene che la “povertà” è dovuta alla mancanza di Dio. Solo i potenti decidono, e i poeti sono esclusi dai giochi di potere. Possono solo testimoniare le immani tragedie di questo tempo:
Quei numeri tatuati sul pianeta
aspri musi da faina dove l’iride turbina
e si schianta involontaria smarrita
la selvaggina umana: per la scala minore
su sfondo oro sbanda un meridiano
di rintronati dalla fragranza di un suono
la loro eleganza disadorna.
Non sono mai nessuno i poeti –
nel vuoto dell’amore, dai vuoti di memoria
pugnalano in lingue il lontano.
Poi l’aurora.
Siamo noi forse ad avere pregiudizi nei confronti dell’esistenza, o i nostri sono giudizi a posteriori? Non lo sapremo mai. È il serpente che si morde la coda. Siamo vittime dell’uroboro. Per gli orientali il desiderio è illusione. Per noi occidentali è inesauribile. Sono molto rari gli istanti di felicità. La felicità è uno stato d’animo. Rincaro la dose: è uno stato d’animo illusorio. Il piacere è effimero. L’orgasmo è “una piccola morte”, come viene definito dai francesi. Non siamo certi dell’esistenza di Dio. Noi però dobbiamo amare il mondo e la vita, nonostante le sue brutture. Potrebbe non esserci un’altra vita che riscatta la limitatezza di questa. Questa vita è fatta di niente. Il sostrato ontologico di questa vita è il niente. Questo è il risultato di qualsiasi analisi fenomenologica della vita. La vita è un continuo rimandare la morte. Aspiriamo all’infinito, lo contempliamo, lo bramiamo. Ma non è detto che siamo fatti per esso. Questa vita è poca cosa, però è l’unica di cui siamo certi di avere a disposizione. Dobbiamo tenercela stretta. Siamo di fronte al “nulla che c’è” ed è per questo che talvolta c’è bisogno di momenti di leggerezza, che sono istanti di evasione e oblio. Mettersi faccia a faccia col nulla però non porta che all’autodistruzione. Il corpo a corpo con questa vita può diventare estenuante. Siamo incerti e sospesi tra il nulla e l’infinito. La morte nullifica ogni poter essere terreno. Tutto può essere a questo mondo:
Cimiteri di campane via dal mondo
fanno l’unione della terra all’erba, vegliano
sulla diaspora dei morti, trame dell’insaputo,
nessuna luna ha una febbre così fredda
di rimanere ferma nelle notti, devota al vuoto.
Ma un’aria protesa è un fulmine, il venire meno
al loro patto insegnando senza luogo la disfatta
e non è alta la nota della fine ma si immagina tremenda,
la sua ferita fino in cielo è non morire.
Come scrisse Quasimodo: “Ed subito sera”. Il potere, la bellezza e la ricchezza non restano. Potete combattere alcuni segni del tempo, ma non il tempo. Scorre inesorabile la sabbia nella clessidra. Il mondo continua a girare. La vita di ognuno è un cantiere aperto per pochi decenni. Molti uomini sono persi nella loro routine. Difficilmente qualcosa o qualcuno cambiano il corso o lo stile della loro vita. Talvolta è troppo tardi per cambiare: il croupier ha già detto “rien ne va plus”. I giochi ormai sono fatti. C’è anche chi muore di fame o di guerra o su un barcone come i migranti, ma il resto dell’umanità è inerme di fronte a queste disgrazie. I pochi che governano la terra se ne infischiano. Si sentono invincibili. Nel mondo occidentale si è molto attaccati alla vita e i medici anche nei casi disperati non lasciano mai niente di intentato. Poi quando non c’è più niente da fare dicono ai familiari che allo stato attuale delle conoscenze…. e qualche parola per esprimere cordoglio. Molti aspettano un colpo di fulmine; altri un colpo di scena; poi vengono vinti da un colpo apoplettico. C’è chi viaggia il mondo e chi invece si accontenta di viaggiare dentro sé stesso. Ognuno lotta a suo modo contro il niente. Certe volte si vorrebbe essere un frullo di ali, un chicco di uva, una rondine. La realtà invece è che spesso siamo una cosa qualsiasi, monotona, monotematica e monocorde: una cosa tra le cose, inessenziale per gli altri. La realtà è che ci si trova in un labirinto che può diventare carcere a vita, oppure in un deserto che diventa morte. Nel Mediterraneo barche di migranti fanno naufragio. Lo stesso Papa Bergoglio ha denunciato il fatto che il Mediterraneo è un immenso cimitero. Nel terzo mondo si muore per un nonnulla e a nessuno importa niente. La città natale della poetessa, ovvero Bergamo, è stata colpita in modo terribile dal Covid: è un’ecatombe. Ma le campane suonano per tutti, indistintamente: ognuno alla sua ora, nel suo luogo, a suo modo. Non c ‘è scampo, se non in una realtà ultraterrena, di cui non c’è alcuna certezza. Tutto ciò è espresso in questi versi mirabili:
Ero là, ecco la storia
una campana che rimbalza da lontano
e la distanza da domare si consegna
corpi adorati tradotti
dall’udito, tutto un cielo
ammanettato in gola.
Ma si è veramente liberi di scegliere? Siamo sempre tutti alla ricerca e in attesa. Cerchiamo tra i segni. Aspettiamo un simbolo. Più simboli fanno un’opera. Ci imbattiamo nell”anello che non tiene montaliano, nello gnommero gaddiano. Siamo come le docili fibre dell’universo ungarettiano. Ci scopriamo in disarmonia. Ci scopriamo ossimori viventi. Ritengo che questi siano i presupposti della poesia della Bre. Forse è questo sentire che la spinge a scrivere. Tutto forse nasce da qui. Io però nella vita vedo un garbuglio, un caos enorme nel mondo, dove la Bre vede forse un congegno al di fuori dell’ordinario, qualcosa che rende straordinaria l’esistenza umana. Spesso nella vita si viene ingannati dai giochi di specchi. Si rimane ammaliati dai riflessi e dai riverberi. Nascere è vincere alla lotteria, ma vivere è un azzardo. Morire sarebbe la più grande delle incognite, se non ci fosse la dimensione della speranza: interpreto così la poesia della Bre. Non credo che sia importante scegliere di credere tra deus ex machina, deus absconditus o deus sive natura. Forse addirittura non si sceglie ma si viene scelti. Spesso di una vita non restano che nome, cognome e due date. I cari ricordano poche gesta e poche parole, come scriveva Sanguineti. I più ottimisti lasciano figli al mondo. Scapoli e zitelle lasciano animali domestici. Pochissimi lasciano una traccia nel mondo. Pochissimi lasciano un epitaffio nella lapide del mondo. Ai più sembra inutile, dove è avvenuto un incidente o un omicidio, erigere un cippo funebre. Ma in fondo a ben pensare quel che ci distingue dagli animali è il culto dei morti. La morte sembra vincere su tutti e su tutti, ma solo di primo acchito. Nessuno sa se la morte avrà dominio oppure no, per dirla alla Dylan Thomas. La Bre ci ricorda che non si può puntare tutto sulla carne perché i suoi piaceri sono illusioni effimere al cospetto della morte. La stessa parola crolla, come scrive lei. Tutte queste mie divagazioni sono rappresentate davvero egregiamente in questi bei versi:
La parola è un impiglio, poi crolla
come ogni monumento
e l’incontro si scioglie
(nell’ingorgo dei suoni s’incaglia
un attimo di senso
e l’attimo nel suono pare eterno
smette quando
di colpo lo convince
la deriva del tempo lì attorno)
non esiste altro evento che questo
che la vita di ognuno apparsa
nella croce che la toglie.