«Io penso effettivamente con la penna, perché la mia testa spesso
non sa nulla di ciò che la mia mano scrive».
Wittgenstein, Pensieri diversi
S. P. — Wittgenstein, nei Pensieri diversi da cui trae ispirazione questa nostra chiacchierata, si mostra interessato a cogliere, quasi a sorprendere, il momento in cui «il pensiero (…) lavora per arrivare alla luce». Mi piace immaginare che l’àncora per questa risalita sia il verso. Nella stessa opera, Wittgenstein precisa: «credo di aver riassunto la mia posizione nei confronti della filosofia quando ho detto che la filosofia andrebbe scritta soltanto come composizione poetica» specificando ulteriormente che «il lavoro filosofico è propriamente… un lavoro su se stessi. Sul proprio modo di vedere. Su come si vedono le cose. (E su cosa si pretende da esse)». Qual è la tua posizione nei confronti di una concezione della poesia come sguardo euristico in cui alla riflessione ‘filosofica’, in un senso molto ampio e composito del termine, si intrecciano indagine estetica e formale? Recuperando l’etimologia greca della parola, che si appoggia al verbo poiêin (fare), può la poesia divenire esercizio di sguardo critico su di sé e, di conseguenza, sul proprio modo di guardare alla realtà? Portando all’estremo limite queste riflessioni, il sé resiste alla poesia?
M. B. — C’è una differenza tra poesia filosofica e poesia di pensiero. La poesia filosofica concepisce la scrittura come interpretazione delle cause delle cose e le rappresenta attraverso un linguaggio metaforico che tuttavia non ha l’ambizione di essere sistematico. Nell’inno omerico a Ermete troviamo questo verbo: kraino, che vuol dire «creare», «eseguire», «compiere». Benveniste aggiunge un altro significato, cioè «far venire all’esistenza»: indica come il processo di creazione – attraverso la materia, ma soprattutto attraverso il linguaggio – dia vita e forma a qualcosa di inanimato e informale. Il logos è inseparabile dal mythos, perché le cause delle cose sono esposte contestualmente alla loro rappresentazione letteraria. La poesia filosofica è fondamentale per la nascita della poesia occidentale: penso a Parmenide, Eraclito o Lucrezio. La poesia di pensiero invece – dai metafisici inglesi a Leopardi, da Dickinson a Valéry – non ha l’ambizione di identificare il logos con il mythos, per una lettura universale dei fenomeni: il suo intento è combinare la percezione empirica dei sentimenti, delle situazioni, dei fenomeni, della storia, con l’attività mentale – o cognitiva – di un soggetto. La mente nell’esperienza, l’esperienza nella mente. La poesia si stacca dalla filosofia in senso proprio: esprime un pensiero metaforico, mentre la filosofia un pensiero logico-astratto. Direi che il pensiero metaforico è sempre una forma di resistenza alla realtà: all’appiattimento e alla banalizzazione con cui la realtà viene presentata dalla logica-strumentale. In poesia, allora, il sé coincide con uno sguardo critico – sia nella relazione con noi stessi sia in quella con il mondo – che resiste, in modo progressista oppure nichilista, alla nullificazione del senso e, quindi, della realtà, a una devastazione dell’umano. In poesia il sé elabora strategie contro gli algoritmi.
S. P. — Come si tratteggia, nella tua poetica, il limite poroso tra esperienza privata e universalità del linguaggio? Se poesia è ‘messa in forma’, in che rapporto sta il gesto poetico col magmatico coagularsi dell’esperienza, personale e collettiva? Questo confine di difficile definizione influenza in qualche modo la tua concezione della scrittura?
M. B. — Uno slogan del Sessantotto diceva: il privato è pubblico. Credo che il privato possa considerarsi pubblico – collettivo – se c’è responsabilità. Scrivere è un gesto di responsabilità. Qualcuno si sofferma a pensarci? Due affermazioni mi sono care: “Il rovescio della medaglia della democrazia è che chi è sincero ha le mani legate”, di Vàclav Havel, e “Essere fiore è profonda Responsabilità”, di Emily Dickinson. Essere responsabili richiede un impegno che può essere deluso nella vita sociale, il pubblico è sempre una combinazione di bene e male; ma essere responsabili a tu per tu con noi stessi, non potrà farci sentire fino alla fine di avere una spina dorsale, come un fiore che si nutre di una luce esterna e di una luce interna, del sole e della sua linfa? C’è molta più luce scura nel mondo di quanto possiamo credere.
S. P. — «La realtà non è tenace, non è forte, ha bisogno della nostra protezione», denuncia Hannah Arendt ne Le origini del totalitarismo. Personalmente ritengo che, se esiste possibilità di protezione, questa si realizzi soltanto affinando uno sguardo accorto, capace di non dissimulare, che attraversa e fa suo il coraggio della testimonianza. Come ti poni nei confronti del rapporto tra poesia e realtà? Esiste, dal tuo punto di vista, una qualche forma di potere del linguaggio poetico sulla realtà?
M. B. — Il potere presuppone una condizione di possibilità. La poesia dovrebbe destabilizzare ciò che è statico, immobile, scontato e dar forma a una disposizione dinamica, mobile, interrogativa. In questo senso, proteggere non significa edificare un hortus conclusus, un giardino segreto del cuore o del cervello, in cui rinchiudere la rosa magica che salva l’incanto, come nel Roman del la Rose o in una torre d’avorio. Si tratterebbe, allora, di una potenza: un incantamento, ma virtuale, che oggi appare regressivo. Proteggere vuol dire, invece, custodire una capacità di attenzione o di accorgimento: per me, è sapere che stiamo interrogando le cose e noi stessi in modo autentico. E se non potremo, magari, proteggere mai nulla di autentico in sé e per sé nella vita, potremo proteggere l’autenticità del modo in cui ci chiediamo il perché delle cose e di noi stessi.
S. P. — Per convocare un altro interessante pensatore del secolo scorso, c’è un passaggio di Essere e tempo in cui Heidegger utilizza il termine cura per descrivere il modo in cui l’essere umano si relaziona al mondo, agli altri esseri e a se stesso. L’aver cura è il modo in cui l’uomo, in una modalità di esser-ci che Heidegger definisce ‘autentica’, si fa carico del proprio essere e del suo rapporto col mondo. Esiste, secondo te, una relazione tra poesia e cura? Eventualmente, quale accezione restituisci a questo termine nel suo rapporto col fare poetico?
M. B. — Heidegger contrappone l’autentico all’inautentico: il sì, cioè la consapevolezza di un senso a cui perveniamo rendendoci conto del significato della morte e attraverso il dolore, al no, un ottundimento dell’intelligenza e della sensibilità, risucchiati nella chiacchiera, nell’insignificante. Dov’è il problema? Il sì presuppone la cura come risolutezza, atto di eroismo, lotta per un ideale. Ma l’autenticità è ancora un ideale, un valore? E, ammesso che lo sia, fino a che punto siamo disposti a credere che solo la lotta per questo valore dia senso alla nostra vita individuale e collettiva? Inoltre, la poesia può essere considerata come una grammatica della risolutezza? È possibile oggi un lirismo morale? Celan diceva: “Non separare il no dal sì”. Zanzotto, da Vocativo in poi, usa il binomio “falso/vero”. Veniamo dopo gli schematismi e le ideologie, il no e il sì dialogano. La poesia porta alla luce qualcosa di autentico se parla di relazioni.
S. P. — Tornando a parlare di ‘messa in forma’, come concepisci il rapporto tra poesia e altre arti? Questo tema ha toccato la tua ricerca? Pensi possa esistere un linguaggio inclusivo che non imponga confini all’espressione ma, al contrario, lavori sulla definizione stessa del limite?
M. B. — La forma si ottiene con il ritmo. I rapporti ritmici, come nella musica, nell’architettura, e in ogni arte plastica, ma anche nella danza, danno luogo a una spazialità. La forma in poesia è simile a una percezione spaziale, che dà uno spessore temporale al testo. Passando dall’incipit all’excipit attraversiamo una dimensione: dall’inizio alla fine, da un momento a un altro momento, che non possono essere altro se non ciò che sono. Dewey pensava che la forma fosse esperienza. Prendiamo qualche verso di Amelia Rosselli: “Ho venti giorni / per fare una rivoluzione: ho / altri venti giorni dopo la rivoluzione / per conoscermi / mio piccolo diario sentenzioso”. Banalmente, se gli enjambement non fossero usati come Amelia li dispone, il testo non avrebbe lo stesso ritmo, cioè la stessa forma, e lo stesso valore semantico. Immaginate di leggere il testo in questo modo: “Ho venti giorni per fare una rivoluzione: ho altri venti giorni dopo la rivoluzione per conoscermi [mettendo qui, magari, una virgola?] mio piccolo diario sentenzioso”. Se gli enjambement non ci fossero e il testo scorresse come una prosa, non staremo attraversando quello spazio, quella forma, ma un’altra, in cui la “rivoluzione” e il “conoscermi”, il rapporto tra politica e interiorità, avrebbe una pregnanza meno rilevante: presteremmo un’attenzione meno intensa all’incontro o conflitto tra questi due piani dell’esistenza, il sociale e l’intimo. Prima il ritmo, allora, e poi il metro: lo suggeriva già Rosselli in Spazi metrici. Il ritmo è il filo rosso fra tutte le arti.
S. P. — Per concludere, vorrei proporti un’altra stimolante provocazione che Wittgenstein lascia alle pagine dei suoi Pensieri diversi: «io non devo essere nient’altro che lo specchio nel quale il mio lettore veda il proprio pensiero con tutte le sue deformità e riesca poi, grazie a tale aiuto, a metterlo a posto». A quale ipotetico rapporto col lettore senti di acconsentire attraverso la tua poetica?
M. B. — La scrittura è un gesto mentale e fisico che ha bisogno di essere indirizzato. Penso che non si provi il desiderio di scrivere, ma il bisogno di farlo: cioè, scrivere è una forma cruciale di sopravvivenza della comunicazione. Il destinatario può essere la stessa persona che scrive, come in un gioco di specchi dove si propaga un’auto-rifrangenza, un interlocutore assente, reale o immaginario, oppure un interlocutore presente. Il vocativo è la fonte dell’esperienza della scrittura, che è prospettiva, rivolta a. C’è sempre una direzione, come le parole che scorrono da una parte all’altra di una pagina o di uno schermo, che significa che se stiamo formando un testo stiamo andando verso qualcosa o qualcuno. Una pianta che cresce ha il proprio verso e così un animale che fiuta; anche una persona che osserva e si esprime compone il proprio verso, come muoversi da zero a un certo grado di estensione e senso. Andare verso e fare verso possono coincidere: abbiamo bisogno di andare verso e fare verso, per riconoscere chi siamo e per riconoscerci con gli altri, nello spazio e nel tempo. Non siamo automatici.
* * *
Nota a cura dell’autrice
Queste poesie sono pubblicate in anteprima da L’altro limite con inediti, introduzione di Stefano Bottero, collana Vega, Pellegrini editore. Tre testi sono tratti dalla prima sezione, che è una riscrittura de’ L’altro limite uscito per pordenonelle-lietocolle nel 2017, mentre gli altri si leggono nella terza sezione, La volpe dell’isola, e nella quarta ed ultima, Luce scura.
* * *
Da L’ALTRO LIMITE
Accade che in questi metri quattro per tre
sia morto un uomo di novantacinque anni,
che sulla sua pelle vedi la forma del suo mento.
Accade mentre premi le dita sul mento
che lui sia giusto e corto, la tua statura vaga.
La statura accade come la morte ed è qualcosa
saturo, senza punti. I geni si staccano, iniziano
a corrodere. La stanza non contiene, il corpo è
lungo dieci dei tuoi palmi.
Accade che resti sempre nella stanza dove è morto
anche quando ti lavi le gambe aperte e dici
come può raccogliersi il disordine, chiarificarsi
in una confusione di sessi che sono il vuoto
mentre ti lavi. Anche l’urina diventa invisibile.
Il disordine è senza sentimenti, asciutto nelle pieghe
dei genitali, delle lenzuola azzurre, della neve radicata
o qualcosa che taglia l’aria come una lama dentata:
puoi essere anche un uomo, invecchiare come un uomo,
spostare l’energia dal seno all’inguine, sentire che arriva tutto
fra le tue gambe, fra i suoi occhi, non c’è più violenza
Ma sul disordine della casa nella luce del computer
sull’ordine abitato delle tombe sotto la montagna
guardatela, dici, si lava con le unghie a fondo nell’acqua,
guardatela, le ossa vuote e strette, la lama è dentata.
*
VII.
Del nostro bene avrai un’eredità
come raccogliere la filigrana dei cristalli di neve
e aspettare che si sciolgano sopra un’immagine.
C’è una precisione fra le molecole, non si può dire:
intricate e salde quando iniziavamo a capirci,
poi aperte, parlanti, inesistenti.
Allora incido l’eredità della tua voce
attraverso i microfoni, la lascio sedimentare.
Con distanza l’immagine dei nostri piedi si forma,
è polvere, tutte le cose intorno diventano opache.
La zip che unisce la giacca al petto sembra
la strada di una città con molte archeologie,
la polvere ci copre come la voce:
nevica sui tetti di paglia, su teste di paglia,
i cristalli sono ognuno diverso e inumano.
Consapevoli fingiamo che il bene costruito
possa sciogliersi definitivo
insieme a tutto leggero tutto è
definitivo.
*
XII.
Le vene continuano a vivere
e una bellezza esce fuori
dalla trama delle coperte.
Le tue parole mi hanno lasciato
alle pareti bianche
come una vita che non fa male –
forse solo la stanza capisce
il senso muto, il riflesso nervoso…
La tua camicia riporta il suono
del fiume e delle strade,
le fontane spente d’inverno
quando l’acqua si gela.
È stato un attimo più forte
mentre i gesti delle ore di oggi
già si staccano.
Non siamo più eroismo.
Tutta la città impazzita
è nel tuo corpo, la vedo,
la vita leggera di cui ho avuto paura
fa breccia e si calma
tra le pieghe del letto,
entra in un’arca invisibile, ci libera?
* * *
Da LA VOLPE DELL’ISOLA
III. Lago e Incesto
Trasimeno amava la ninfa.
Lei nuotava in un corpo trasparente, lui la inseguiva:
forma dell’amore, desiderio di incesto?
Fratello del lago, sperma nell’acqua.
Sorella dei lucci, unione di elementi.
Siamo fermi adesso, ipnotizzati dalla volpe,
dalla densità della luna, dalle rughe degli ulivi.
Qui non si conoscono limiti.
Stanotte sopra la collina le volpi gridano
così umane:
poeta che ama poeta
– incesto.
* * *
Da LUCE SCURA
Uscire dalle parole, entrare nelle parole…
Uscire dalle parole, entrare nelle parole:
la luce si rifrange e dà i colori –
essere sempre dentro – la mano vicina
sembrava bianca, stesa diventa cosa?
Allora, essere sempre fuori –
tutte le parole posate sopra di noi.
Ma il tuo respiro è incolore e insapore,
mi apro per capirlo. Il respiro non si finge.
La luce confonde. Il respiro è autentico.
Regolo il mio con il tuo –
uscire dalla luce, rientrare in noi.
* * *
Maria Borio è poeta e saggista. Ha scritto Trasparenza (collana “Lyra giovani” a cura di Franco Buffoni, Interlinea 2019) è stato tradotto negli USA e riedito nel 2024 con postfazione di Alessandro Carrera e Benedetta Saglietti, e L’altro limite (pordenonelegge-lietocolle 2017) tradotto in Argentina e riedito come L’altro limite con inediti, con introduzione di Stefano Bottero. Ha pubblicato le plaquette Dal deserto rosso (I Quaderni della Collana a cura di Maurizio Cucchi, Stampa2009, 2020) e Prisma (manufatti poetici a cura di Paolo Giovannetti e Michele Zaffarano, Zacinto edizioni 2022). Il suo ultimo libro di saggistica è Poetiche e individui (Marsilio 2018) e sta lavorando a un progetto su letteratura e autenticità. Cura la sezione poesia di “Nuovi Argomenti”. È redattrice del sito culturale “le parole e le cose”. Fondatrice della scuola internazionale poesiæuropa, collabora con i programmi di Radio 3 Rai e con la cattedra di letteratura italiana contemporanea dell’Università di Perugia. Nel 2024 esce Briefe aus der Roten Wueste / Lettere dal deserto rosso, con Tom Schulz (traduzione di Pia Elizabeth Leuschner e Paola Del Zoppo, Gutleut Verlag) e nel 2025, a sua cura, Cinquantacinque poesie di Emily Dickinson, scelte da Jorie Graham, traduzioni di Maria Borio e Jacob Blakesley (Crocetti).
Silvia Patrizio nasce a Pavia nel 1981. Dopo il liceo classico si laurea in filosofia, specializzandosi successivamente in filosofie del subcontinente indiano e lingua sanscrita. ‘Smentire il bianco’ (Arcipelagoitaca, 2023), la sua prima raccolta poetica, con prefazione di Andrea De Alberti e postfazione di Davide Ferrari, vince la III edizione del premio nazionale Versante ripido (2024) e il primo premio assoluto alla XVI edizione del premio nazionale Sygla – Chiaramonte Gulfi (2024), classificandosi anche al primo posto nella sezione poesia edita del medesimo premio. Suoi testi compaiono su diversi lit-blog e riviste, sia cartacee che online, tra cui L’anello critico 2023 (Capire Edizioni, 2024); Metaphorica – Semestrale di poesia (Edizioni Efesto, 2024); Gradiva – International Journal of Italian Poetry (Olschki Edizioni, 2023); Officina Poesia Nuovi Argomenti (2023); Inverso – Giornale di poesia (2023); Universo Poesia – Strisciarossa (2023). Fa parte della redazione di Atelier Online. Tutte le sue passioni stanno nei dintorni della poesia.
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Nota della redattrice
Il titolo della rubrica è la rivisitazione di un verso tratto alla poesia La partenza, di Franco Fortini.
© Fotografia di proprietà dell’autrice.