Io penso effettivamente con la penna, perché la mia testa spesso
non sa nulla di ciò che la mia mano scrive.
Wittgenstein, Pensieri diversi
S.P. Wittgenstein, nei Pensieri diversi da cui trae ispirazione questa nostra chiacchierata, si mostra interessato a cogliere, quasi a sorprendere, il momento in cui «il pensiero (…) lavora per arrivare alla luce». Mi piace immaginare che l’àncora per questa risalita sia il verso. Nella stessa opera, Wittgenstein precisa: «credo di aver riassunto la mia posizione nei confronti della filosofia quando ho detto che la filosofia andrebbe scritta soltanto come composizione poetica» specificando ulteriormente che «il lavoro filosofico è propriamente… un lavoro su se stessi. Sul proprio modo di vedere. Su come si vedono le cose. (E su cosa si pretende da esse)». Qual è la tua posizione nei confronti di una concezione della poesia come sguardo euristico in cui alla riflessione ‘filosofica’, in un senso molto ampio e composito del termine, si intrecciano indagine estetica e formale? Recuperando l’etimologia greca della parola, che si appoggia al verbo poiêin (fare), può la poesia divenire esercizio di sguardo critico su di sé e, di conseguenza, sul proprio modo di guardare alla realtà? Portando all’estremo limite queste riflessioni, il sé resiste alla poesia?
C.S. Gli studi ipotizzano che il linguaggio sia nato come risposta all’ambiente per indicare disponibilità di cibo e minacce, e per la nostra specie si sia evoluto facilitando situazioni sociali sofisticate. Tutti i segnali evoluti hanno significato un vantaggio cruciale per la sopravvivenza e per la coesione del gruppo umano. Il linguaggio, il canto e le innumerevoli forme di memorizzazione di cui si compone, sono stati un vantaggio ai fini dello sviluppo di questa coesione sociale e della conoscenza. Noi abbiamo contezza di questi processi da un periodo piuttosto breve, da circa cinquemila anni, grazie a ciò che abbiamo potuto ricostruire dalle forme di scrittura logografica in poi. La poesia antica che conosciamo, sumera, ittita, indiana, greca e latina, etc, è stata strumento di narrazione delle élite dei popoli dominanti. Ne sono testimonianza i racconti sumeri in cuneiforme, dal Dio Enki agli dei da lui generati, al punto che la divinità della città sumera dominatrice diventava nell’epopea la figura di riferimento, poi nell’Iliade, nell’Odissea, pure nella Bhagavadgītā – qui l’eroe Arjuna sta per dare inizio alla battaglia di Kurukṣetra, una faida tra famiglie per il potere… Esistono in questi canti dominati dalla narrazione della lotta per il potere, spunti filosofici e culturali.
La poesia testimonia il percorso umano e di conoscenza, ritrasmettendosi nell’immaginario. Mi vengono in mente le parole di Bigongiari sulla leggibilità dell’opera che non accade solo nel tempo e nello «spazio che l’ha vista nascere, ma nelle condizioni storiche continuamente diverse in cui si traspone, traspone il suo moto stellare di senso». Sia per i canti antichi che per quelli recenti esiste e resiste un pretesto riconducibile al sé che orienta l’opera e la definisce, ma il sé non è l’opera e non ne governa l’interpretazione successiva.
Nel nostro presente la poesia non è più lo strumento delle élite dominanti.
Sono felice quando assistiamo a un rovesciamento, ad esempio il mito di Ganimede e la poesia ouverture di Jericho Brown in La Tradizione (Donzelli editore 2023) che ragiona sul ruolo del fanciullo comprato da Zeus, divenuto amante e coppiere degli dei – la compravendita del ragazzo è l’occasione per uno stupro… La poesia di Brown chiede perché la violenza sia una genetica della cultura, perché schiavitù e servaggio siano diretti discendenti del mito incastonato nell’antichità e perché la trasmissione di idee debba accadere senza un filtro critico. Sto discutendo pubblicamente l’individualità di Brown? Non credo sia necessario ricondurre tutto al “sé”, ma a ciò che viene trasmesso dall’opera.
Il mistero dell’esistenza è una poesia molto più grande del “sé”. Per me è uno spazio aperto per l’etica e la civiltà che si apre sul piano interpretativo.
Il poeta usa le competenze acquisite interpretando altre opere, attraversa i pretesti, orienta i simboli, funzionalità che agiscono sia in senso sincronico che diacronico.
Guardo a Trasumanar e organizzar di Pasolini, un’opera drammatica e attualissima ma in modo completamente diverso sul piano critico rispetto a quando uscì nel 1971.
Il “sé” che cosa diventa se non l’umanità e la sua interpretazione, i tanti uomini e le tante donne che in diversi momenti della storia leggono e danno la loro interpretazione alle opere?
Wittgenstein non ha fatto altro che richiamare un principio chiaro a tutti i filosofi che osservano la poesia, la trasmissione di una conoscenza sensibile e le sue intrinseche possibilità interpretative.
S.P. Come si tratteggia, nella tua poetica, il limite poroso tra esperienza privata e universalità del linguaggio? Se poesia è ‘messa in forma’, in che rapporto sta il gesto poetico col magmatico coagularsi dell’esperienza, personale e collettiva? Questo confine di difficile definizione influenza in qualche modo la tua concezione della scrittura?
C.S. Il linguaggio non è una proprietà della sola nostra specie. Ad esempio delfini e pipistrelli hanno la possibilità di sviluppare nuovi richiami, e ci sono specie di uccelli che trasmettono canti generazione dopo generazione. L’universalità del linguaggio coinvolge e chiama a raccolta le specie viventi, all’interno di una responsabilità ecologica, privata e collettiva.In una sezione di Ballate di Lagosta (Donzelli editore 2022) ho ospitato una riflessione sul concetto di “permanenza”. Non permanere come individui può spingerci a comprendere quale sia la conoscenza da trasmettere, trattando l’umanità come uno degli snodi della realtà nel tempo.
Per un’opera che agisca nei diversi momenti della Storia, gli spunti dovrebbero orientare molteplici possibilità interpretative. Anche la biografia deve poter agire in tempi e modi diversi.
La poesia è un discorso pubblico dove ciò che è personalissimo diventa collettivo. Nella sua intrinseca diacronia, è naturale che sia di difficile definizione per chi realizza il suo tentativo.
Ma in Italia?
Il discorso pubblico di poeti e scrittori che trattano tematiche politiche e argomenti sensibili viene boicottato. I giornalisti e i critici scrivono di quale poesia?
Operava sul piano della dinamicità del dibattito culturale più la differenza tra poesia borghese e operaia negli anni Sessanta e Settanta, accomunate dalla lotta politica, che le strutture che certificano come poeti chi a vario titolo ha un ruolo nello stesso convento.Nel nostro presente l’esigenza privata che ognuno ha di poesia finisce con la presenza nella collettività del sistema letterario a diversi livelli. Inevitabilmente sto discutendo di processi di accreditamento attorno a forme predeterminate, che producono effetti sulle aspettative e sugli egotismi.
Le voci che non stanno al gioco nelle forme letterarie e sociali codificate vengono marginalizzate. Fuori da questi gusci di letterarietà, il capitalismo sbrana qualsiasi cosa.
La mia urgenza è verso la collettività tout court e il mio privato indica ciò che sta accadendo all’umanità in questo momento. Subiamo una regressione in campo politico, culturale e sociale, che influisce sui nostri diritti.I cinquantamila che si sono ritrovati a Roma a manifestare contro il riarmo per un’Europa e un mondo diverso sono parte di una poesia da scrivere.
Chi scrive questa poesia in Italia? Sono forse coloro che vanno ai convegni su Fortini?
S.P. «La realtà non è tenace, non è forte, ha bisogno della nostra protezione», denuncia Hannah Arendt ne Le origini del totalitarismo. Personalmente ritengo che, se esiste possibilità di protezione, questa si realizzi soltanto affinando uno sguardo attento, capace di non dissimulare, che attraversa e fa suo il coraggio della testimonianza. Come ti poni nei confronti del rapporto tra poesia e realtà? Esiste, dal tuo punto di vista, una qualche forma di potere del linguaggio poetico sulla realtà?
C.S. La sensazione di doversi proteggere da chi oggi detiene il potere è reale, quanto lo era per Arendt riflettendo alla fine della Seconda guerra mondiale. Siamo governati da chi invade le sfere private grazie al controllo dei mezzi di comunicazione, eliminando la critica. Dovremmo chiedere più democrazia, ma deleghiamo la rappresentanza senza rispondere a domande fondamentali che riguardano il nostro progresso.
Come ha ricordato in un’intervista del 2015 il poeta turco Adnan Özer a proposito dell’Isis e della strenua resistenza curda, “contro la loro violenza la cultura non può niente”. La poesia ha la possibilità di ospitare nel linguaggio il cambiamento, l’empatia e la sensibilità, ma contro la violenza cosa può fare? Ribalto la domanda, per il progresso cosa può fare?
Nella storia le opere poetiche hanno ospitato l’effluvio dei linguaggi dominanti, le narrazioni del potere. Quali strategie hanno adottato e adottano i poeti per sopravvivere?
Guardiamo anche al caso più particolare di scrittura poetica, la poesia asemica in Italia: nel solco di un contrasto alla comunicazione dominante, l’effetto della provocazione si estingue in una performance o in una installazione che utilizza la funzione sincronica del testo diventando a sua volta un oggetto, un pulsante, un dispositivo, un meccanismo della produzione. Basta per produrre un cambiamento?
Ho la mia idea sperimentale sull’utilizzo della scrittura asemica con un apparato esterno al linguaggio utilizzato che ospiti il tempo, il nostro futuro, la forza di una o più utopie contro tutta la violenza che ho visto, contro lo sfruttamento, contro il nucleare e contro la distruzione dell’ambiente. Credo che la poesia possa farci comprendere molto del presente, a patto però che il poeta lavori i suoi spunti nel “tempo”.
Leggendo le opere del passato cogliamo dei nessi nella realtà che stiamo vivendo.
Guardo all’immagine di Aldo Moro “acciambellato in quella sconcia stiva, / crivellato”: il testo poetico è una testimonianza del fatto, ma è nel suo insieme che Al fuoco della controversia (1978) di Luzi funziona, perché coglie le forze in gioco che si contendono la Repubblica morente. È paradossale quanto sia attuale, quanto funzioni, quanto sia drammaticamente vicino a noi questo libro, come se quella storia non sia stata interpretata, non sia conclusa.
In realtà, di cosa abbiamo bisogno, se non della memoria della poesia, nella poesia?
S.P. Per convocare un altro interessante pensatore del secolo scorso, c’è un passaggio di Essere e tempo in cui Heidegger utilizza il termine cura per descrivere il modo in cui l’essere umano si relaziona al mondo, agli altri esseri e a se stesso. L’aver cura è il modo in cui l’uomo, in una modalità di esserci che Heidegger definisce ‘autentica’, si fa carico del proprio essere e del suo rapporto col mondo. Esiste, secondo te, una relazione tra poesia e cura? Eventualmente, quale accezione restituisci a questo termine nel suo rapporto col fare poetico?
C.S. Quali sono le domande fondamentali?
Tutto è orientato al soddisfacimento individuale, tutti i prodotti culturali sono vissuti in tal senso.
Il rapporto con il mondo sembra una diretta conseguenza del rapporto con i prodotti.
L’organizzazione del capitalismo interviene in tutti i segmenti della società.
Sembra che ci sia qualsiasi cosa, che ogni cosa sia disponibile, ma il potere di acquisto in Italia è sceso del 30% negli ultimi cinque anni.
I lavori si estinguono a causa dell’automazione e per le delocalizzazioni industriali. I lavoratori sono soggetti al precariato, il mobbing è particolarmente diffuso, l’assenza delle donne nelle posizioni apicali evidenzia come il sessismo incida sulle mancate progressioni di carriera.
I processi economico-sociali stanno impoverendo il paese culturalmente. Abbiamo bisogno di una nuova fase progressista.
La UE non è un soggetto politico adulto, con una democrazia diretta in grado di governare processi di pace e allargamento. Manca una prospettiva politica ed economica che guardi al sud e all’est del mondo con una politica attiva verso la cittadinanza.
La cura dovrebbe partire dalla reciproca comprensione tra gli individui di questo pianeta, un’occasione di ascolto.
Ma manca anche l’ascolto tra persone di cultura. Manca un dibattito tra gli intellettuali.
Mi sembra che la maggioranza dei poeti sia interessata solamente a mantenere la propria posizione o a realizzare una scalata nell’industria editoriale e nel parallelo sistema di promozione. Il dibattito distruggerebbe i poeti che hanno raggiunto delle posizioni strumentali e che sono diventati degli influencer.
La poesia produce cambiamenti nel modo di interpretare, ma l’umanità è attraversata tutta dall’hybris del capitalismo e la politica è nelle mani di oligarchie economiche.
I farmaci curano, si somministrano ai malati, e la poesia non può fare nulla contro le “malattie” indotte dal capitalismo.
Sono gli individui che consapevolmente devono spostarsi dalla loro comfort zone. Anche i poeti.
La poesia è una testimonianza, questo sì, di una logica asimmetrica, di una sensibilità sghemba, che fa comprendere quanto inaspettato, quasi impossibile, sia il nostro essere qui.
S.P. Tornando a parlare di ‘messa in forma’, come concepisci il rapporto tra poesia e altre arti? Questo tema ha toccato la tua ricerca? Pensi possa esistere un linguaggio inclusivo che non imponga confini all’espressione ma, al contrario, lavori sulla ridefinizione stessa del limite?
C.S. Secondo Pasolini l’atto poetico è riconducibile a una ideologia razionale. Siamo in presenza di un processo formativo dove le teoresi generano via via l’opera, esplicitando opzioni e orientamenti.
L’atto può essere rappresentato come una performance, le numerose possibilità formative possono essere vissute come una messa in scena. L’opera formata vive una fase ulteriore e, per mezzo di una lettura privata, in una lettura pubblica, grazie a una videopoesia, per mezzo di una canzone, viene eseguita.
La formazione dell’opera è la materia dei sogni dei poeti e questa sorta di performance, il cui risultato è l’opera formata, si spiega infine sul terreno dell’interpretazione.
Il critico non può prescindere dalla ricerca di spunti e pretesti. Inoltre la poesia risponde a diverse mitologie del tempo e dell’azione, e tra chi realizza l’opera e chi ne diventa l’esecutore ci possono essere diversi periodi storici, diverse sensibilità.
In assenza di un contesto politico e sociale di riferimento, le categorizzazioni riflettono un modo di intendere i testi ancorato al Novecento e ad alcuni spunti delle avanguardie, ma i confini a chi servono?
Immaginiamo i nostri spunti, le ideologie, le categorie, nel futuro.
Molteplici sono i processi di formazione utilizzabili, anche all’interno della stessa opera, e i tempi sono maturi per considerare tutte le opzioni formative come percorribili, riconducibili ai pretesti scelti senza indicare la necessità di una unica scelta di campo.
La poesia – con tutto il suo fare, la sua formatività – accade dal primo verso consegnato all’opera, ai test del poeta durante la formazione, alla consegna dell’opera formata e all’ultima, ultimissima lettura, quella di un liceale che legge la Commedia centinaia di anni dopo.
I confini a chi servono?
S.P. Per concludere, vorrei proporti un’altra stimolante provocazione che Wittgenstein lascia alle pagine dei suoi Pensieri diversi: «io non devo essere nient’altro che lo specchio nel quale il mio lettore veda il proprio pensiero con tutte le sue deformità e riesca poi, grazie a tale aiuto, a metterlo a posto». A quale ipotetico rapporto col lettore senti di acconsentire attraverso la tua poetica?
C.S. La poesia indica un ascolto, e la mia poetica vorrebbe che questo ascolto testimoni a sua volta che al centro ci siamo noi – con la nostra bellezza, con la nostra indignazione – che rivendichiamo le scelte per chi verrà.
Nota. Il titolo della rubrica è la rivisitazione di un verso tratto alla poesia La partenza, di Franco Fortini.
* * *
da Ballate di Lagosta (Donzelli editore 2022)
Fine della processione
entriamo in un piccolo cimitero e penso in una lingua non mia
parole che sembrano dure come i discorsi del prete:
recitano una parte che si ripete nella totale amnesia
poi si arriva ai Signore pietà, Cristo pietà, chiusi da questa parete
di uomini e donne scesi dalla sommità del paese e dalla chiesa
e sogno una grande processione che chiami l’Europa, quando suona
una campanella, il prete tira la sua corda tesa
più e più volte, e seguita con una preghiera, questa volta atona –
intanto la marea che entra nel Mediterraneo si insanguina
come un’aorta spinge il sangue di Cristo tra tutte le capitali
e per un attimo credo che l’orazione duri tutta la mattina
– fissando le lapidi di pietra e i fiori avvolti dai giornali
ci dividiamo come un unico corpo tra le tombe, e io non so più pregare:
per alcuni è un cammino di conoscenza, per altri solo di speranza
e il cimitero è così affollato che non si trova un angolo per amare
*
La cittadinanza di Ambroz
posso richiedere la cittadinanza del mondo,
eppure sono rimasto fino a mezzogiorno
a guardare lo specchio d’acqua del pozzo
e i fichi caduti dall’albero, rivestito dalla brezza
di metà mattino e non ho avuto paura
di guardare dentro di me e sapere
che significato è quello di essere vicini
a tutto ciò che è finito, compiuto
come il secchio tirato su
*
dalla sezione Ma voi non fermate il loro canto
l’isola è un uomo,
il suo cuore l’estasi e la sua lingua
estesa ovunque, liquida,
ma dopo la tempesta
i colori dell’erba sono bruciati,
il paesaggio si è raffreddato
e ha spinto un vento ignoto
il ciclone dell’inverno tra le barche,
e nessuno ricorda
le parole disperse sul cielo nero,
i nomi morti nel Mediterraneo
*
e tu tornerai ogni giorno all’alba
con gli spazi vuoti da custodire:
tra le pietre scolpite
la linea della costa
sarà mutata, ed io non saprò
di te, se ti tufferai
o scenderai tra i gradoni
di calcare e poserai
sopra la posidonia
la tua sagoma di uomo
che continuerà a muoversi con le onde,
che continuerà a crescere dopo di me,
dopo la mareggiata
e l’erosione della nostra memoria
* * *
Christian Sinicco è nato a Trieste nel 1975. È vicedirettore di poetipost68.it.
Caporedattore di Fucine Mute, tra i primi periodici multimediali italiani, ha fondato e presieduto la Lips (Lega italiana poetry slam) e diretto Poesia del nostro tempo. Ha curato l’indagine sulla nuova poesia dialettale confluita in L’Italia a pezzi. Antologia dei poeti in dialetto e in altre lingue minoritarie (1950-2013) (Gwynplaine 2014). Ha pubblicato poesia in rivista e in volume tra cui le raccolte Ballate di Lagosta (Donzelli 2022, Finalista Premio Strega Poesia 2023, Premio Poesia Onesta 2023, Premio Versante Ripido e Leonardo Lucchi 2024), Alter (Vydia 2019) e Passando per New York (LietoColle 2005). Suoi versi sono tradotti in albanese, bielorusso, catalano, croato, inglese, lettone, olandese, slovacco, sloveno, spagnolo, tedesco e turco. Sindacalista Cgil, lavora in una delle concessionarie autostradali del Triveneto, in una zona di transito tra Nord Europa, Adriatico e Balcani.
Silvia Patrizio nasce a Pavia nel 1981. Dopo il liceo classico si laurea in filosofia, specializzandosi successivamente in filosofie del subcontinente indiano e lingua sanscrita. ‘Smentire il bianco’ (Arcipelagoitaca, 2023), la sua prima raccolta poetica, con prefazione di Andrea De Alberti e postfazione di Davide Ferrari, vince la III edizione del premio nazionale Versante ripido (2024) e il primo premio assoluto alla XVI edizione del premio nazionale Sygla – Chiaramonte Gulfi (2024), classificandosi anche al primo posto nella sezione poesia edita del medesimo premio. La silloge ha ricevuto, inoltre, una segnalazione ai premi nazionali Lorenzo Montano 2023 e Bologna in Lettere 2023 ed è risultata tra i finalisti del premio Pagliarani 2024. Suoi testi compaiono su diversi lit-blog e riviste, sia cartacee che online, tra cui L’anello critico 2023 (Capire Edizioni, 2024); Metaphorica – Semestrale di poesia (Edizioni Efesto, 2024); Gradiva – International Journal of Italian Poetry (Olschki Edizioni, 2023); Officina Poesia Nuovi Argomenti (2023); Inverso – Giornale di poesia (2023); Universo Poesia – Strisciarossa (2023). Fa parte della redazione della rivista Atelier Online.
Tutte le sue passioni stanno nei dintorni della poesia.
* * *
© Foto di proprietà di Dino Ignani.