Cristiano Poletti, nato a Treviglio nel 1976, è autore di Porta a ognuno (L’arcolaio, 2012); del saggio Trovandomi in inviti superflui, in L’attesa e l’ignoto – L’opera multiforme di Dino Buzzati (L’arcolaio, 2012); delle prose critiche raccolte in Dei poeti (Carteggi Letterari, 2019); del libro-cofanetto Libellula gentile, con DVD dell’omonimo documentario di Francesco Ferri dedicato alla figura e al lavoro di Fabio Pusterla (Marcos y Marcos, 2019); della raccolta poetica Temporali (Marcos y Marcos, 2019; collana Le Ali).
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MB – Il tuo ultimo libro, Temporali (Marcos y Marcos, 2019), porta fin dentro al titolo la benedizione di una doppia significazione. Temporali sono gli eventi atmosferici, le perturbazioni, le piogge; sono anche, però, gli uomini, gli eventi, gli incontri che sono sottoposti alla legge dello scorrere del tempo. Una figura ricorrente che si pone come punto mediano fra il primo e il secondo significato del tuo “temporale” mi sembra essere quella del corridoio: la prima poesia del libro è proprio Corridoio, con due citazioni, in Referto si legge “Oltre il momento d’acqua, il corridoio / di pioggia che fu specchio, se ne vanno / nel timore di amare, gli uomini”, un’altra poesia si intitola Altro corridoio, e verso la conclusione del libro si ritrovano questi versi “Caro Helmut, / non dolertene. / A questo corridoio / abbiamo dato corpo.” L’idea della vita come corridoio e della – leopardiana – immagine del temporale come attraversamento di uno spaziotempo perturbato alla conclusione del quale si apre una diversa visione mi sembra una delle chiavi del libro. Sei d’accordo con questa lettura? Potresti parlarne un po’?
CP – “Corridoio” appare nel libro sei volte, è una parola ricorrente, insieme ad altre (“mano/i” soprattutto, “acqua”, “anima”, “storia”, “cerchio”). Il temporale allude alla forza di uno sconvolgimento, si riferisce al fenomeno naturale come all’uomo e lascia intravedere la fragilità di ogni situazione ritenuta stabile. Temporale è anche un “potere”, è ciò con cui maggiormente ci misuriamo, è quello che ci ordina.
Riprendo qui Kierkegaard, La malattia mortale, 1849: «L’uomo è una sintesi dell’infinito e del finito, del temporale e dell’eterno». Mi pare che in questa frase ci sia tutto il necessario. E tutto il libro è partito da un temporale, che ho incredibilmente vissuto nel deserto, in Marocco, nell’estate del 2013.
Più di ogni altra attribuzione, è il termine “imprevedibile” ad appartenere alla vita. È un elemento, l’imprevedibilità, che mi pare possa porsi al centro della poesia e credo della storia. La scrittura, lettura e la comprensione della storia avvengono tramite “corridoi”, scelti, o che qualcun altro ha scelto per noi. Ma noi abbiamo la facoltà di “reinventarne” almeno in parte i contorni, mediante salti di tempo e nuove associazioni di fatti e idee, portando luce su dettagli e destini prima oscuri. L’imprevedibile, dunque: la poesia ne fa trascrizione, per frammenti e sintesi. Abbiamo a disposizione un setaccio, o un distillato, qualcosa che resta in superficie, qualcosa che pian piano gocciola. Conta il risultato, il concentrato, il succo della storia, personale e universale.
Quanto all’attraversamento e alla conclusione di una perturbazione o un perturbamento, userei per rispondere questi meravigliosi versi di Mario Luzi: «(…) i vivi i morti, penetrare il mondo / opaco lungo vie chiare e cunicoli / fitti d’incontri effimeri e di perdite / o d’amore in amore o in uno solo / di padre in figlio fino a che sia limpido».
MB – “Fuori infuria la storia. / Nella coda degli occhi / una parola ti tiene”; “Pensavo a me / come oggetto smarrito della storia”; “Ecco, la storia. E adesso / nell’altra stanza c’è un uomo, il suo corpo / pieno di ore è dentro la sua età”; “Dalle nostre labbra pende il nome della Storia”. Questi sono alcuni dei molti versi che dedichi, nel tuo Temporali, alla storia. Non solo, hai deciso di chiudere il libro con una sezione intitolata proprio Storia, in cui fanno capolino alcuni personaggi della storia recente o contemporanea, volutamente non così noti da essere citati in tutti i manuali (dalla vicenda di Conrad Schumann, al primo tedesco ad andare nello spazio, passando per la prima vittima del Muro di Berlino). Che sia scritta in maiuscolo o in minuscolo, la Storia di cui Temporali parla sembra essere meno altisonante, meno salvifica di quella che viene tramandata come res gestae. Anche in relazione alla domanda precedente, mi pare che la storia – e di conseguenza anche la poesia che tratta di essa – sia da interpretarsi come l’intrecciarsi di vari corridoi, di singole micro-esistenze. In tutto questo, che valore ha la poesia? La interpreti come la manzoniana “resa patetica di quello che la storia non riesce a dire” o ha altri significati? E l’Occidente che fa capolino a volte nei versi?
CP – “Ho davanti a me un grande passato”: poco tempo fa un mio caro amico pittore, un grande artista, Sergio Battarola, mi affidava questa sua frase trascritta su un taccuino. L’ho trovata stupenda.
Si diceva, l’imprevedibile. Mi sono carissime queste parole che compaiono in Terra del viso, di Milo De Angelis; le ho anche riportate, riformulate, in esergo all’ultima poesia del mio libro: «Ciò che è accaduto è imprevedibile quanto ciò che avverrà».
All’università ho studiato storia e la storia è restata per me un riferimento costante, un modo di guardare il presente. Si accennava prima al corridoio, all’interpretazione storica. Percorrendo questi corridoi, che sono il simbolo del transitorio, siamo attratti da qualcosa di lampante (ecco di nuovo il temporale, il lampo, qualcosa di folgorante). Molto della storia, come della vita, sappiamo che resta in ombra. Se illuminate, alcune singole vicende diventano esse stesse illuminanti, certe parabole di figure smarrite nel corso del tempo, certi destini. Ciò che è perduto chiede di ritrovare voce, di riunirsi a noi, alla nostra coscienza: ho un pensiero religioso, non lo nego, della storia e per la vita.
Una delle figure più presenti in Temporali è il cerchio.
Pensando alla musica, Joni Mitchell, che adoro, cantava in The Circle Game del 1973: «And the seasons they go round and round / And the painted ponies go up and down / We’re captive on the carousel of time / We can’t return we can only look behind / From where we came / And go round and round and round / In the circle game». L’Occidente è il nostro quadro di riferimento, siamo noi. Abbiamo a che fare con la caduta, con lo smarrimento. Forse l’immagine che più si attaglia al nostro Occidente è il gorgo, di nuovo: il cerchio.
MB – La poesia Neve ha come “sottotitolo” Per una fotografia di Richards ed è, per usare una categoria della letteratura classica, una vera e propria ecfrasi, una descrizione di un’opera d’arte, di un manufatto artistico. Anche le poesie dell’ultima sezione, Storia, sembrano descrivere per immagini situazioni storiche, eventi e fatti di cronaca, come fossero epigrammi che commentano immagini emblematiche e allegoriche (l’accostamento tra allegoria e storia, d’altronde, non è nuovo, almeno a partire da Benjamin). Molte poesie della sezione Altitudini, anche, sembrano invece costruite per sovrapposizione di colori su una tela, come un quadro. So che tu dipingi, e che questa attività è al centro della tua ricerca artistica. Quanto influisce, oltre ai dettagli che ho ritrovato – magari contaminando con mie letture i tuoi versi – questa esperienza della pittura per la tua poesia?
CP – Ti ringrazio molto per questa sottolineatura. C’è l’oraziano ut pictura poesis, che continua a ripresentarsi, lo riconosco. È una questione di inquadramento, essenzialmente. Lo sguardo ha bisogno a mio avviso di incontrare la materia e di avere una cornice. Tu nella domanda dici: “esperienza”. L’esperienza della pittura per me è fondamentale: la materia, appunto, la plasticità. Ci si affida a un gesto, ecco, e non alle parole. La pittura infatti va oltre il linguaggio, supera il dire o comunque lo amplifica. Come per la musica, per questo in Temporali ho scritto «Ma è come in una foto fuori fuoco / la nostra carne. E noi siamo / non strisce di parole / ma musica, musica». Mi scuso per aver citato io stesso alcuni miei versi. La pittura dunque fa fare a meno delle parole, è un’ottima via per l’abbandono, permette di stare nell’occhio e non nella lingua. Mi piace perché, rispetto alla fotografia, la pittura consente più errore. E poi perché c’è il disegno (amo il figurativo). A questo proposito, non ho certo scordato la lezione di Yves Bonnefoy. Mi riferisco a Osservazioni sul disegno e Il disegno e la voce: «Disegno, riflesso del mondo nel vetro, colpito da un sole più lontano del mondo», scrive Bonnefoy. Ecco, credo che in queste parole si concentri una grande saggezza.
MB – Ne La consegna si leggono questi versi in cui la figura cristica si mescola e si confonde a quella umana tout court, in cui simbolo e referente del simbolo si approssimano: Nelle tue mani consegno il mio spirito, / endecasillabo / di chi ha sentito / un giorno venirgli al naso un odore / d’ansia, era amore […] La consegna è un’altra, / altro il tema: non negare il tuo / corpo sul corpo dell’altro.” Più avanti invece abbiamo questi versi: “E il caldo insiste, / da secoli urla noi, / afferma e nega, scompare, ritorna / in rima ingenua, dice che è del male / una radice, amore, e non ha cuore”. Queste due citazioni creano un’associazione inedita tra l’amore, l’ansia, il male, la morte; al contempo rinfocolano la necessità esistenziale dell’amore e del sacrificio per l’altro, una cristiana charitas che è anche morte a se stessi. Mi sembra che anche questo sia un tema centrale del libro; che il temporale sia questo amore che scompagina l’universo e lascia impauriti ma al contempo rinnovati?
CP – Sì, il cuore di ogni “consegna” è la paura. Consegnare se stessi oppure consegnare qualcosa d’importante a qualcuno, o da qualcuno ricevere in consegna, fare affidamento insomma, ha un costo. Si ha paura spesso a farlo, si teme la sorpresa. Si teme molto nella vita e si è sempre ai ferri corti con la propria coscienza. A noi è assegnato un tempo, abbiamo per noi la finestra temporale della nostra esistenza, piena di desiderati o meno sconvolgimenti. Rispetto al nodo vita-storia, in cui tutto ciò s’inscrive, e a proposito del religioso, ci sono questi versi di Montale che continuano a inseguirmi (da Satura, la poesia è intitolata A un gesuita moderno): «È neonato anche Dio. A noi di farlo / vivere o farne senza; a noi di uccidere / il tempo perché in lui non è possibile / l’esistenza».
A proposito di paure, io ad esempio ho avuto e in parte permane una paura antica e bambina dei temporali, una paura mista a una produzione di ansia che si è manifestata presto nella mia vita. C’è timore e tremore. Io credo tremando, anzi credo esattamente nel mio tremore. Ecco, anche qui torna il pensiero religioso, e si lega soprattutto all’amore, motore dello sconvolgimento più forte, dell’entusiasmo misto a sacrificio entro cui continuamente ci rinnoviamo. In rapporto a questo: io sono omosessuale. A lungo molti timori mi hanno attraversato e le difficoltà le incontro ancora oggi, in me stesso soprattutto, nella mia coscienza.
MB – “Poesia: ciò può significare una svolta del respiro”. Con queste parole Paul Celan, nel ricevere il premio Büchner a Darmstadt, ipotizzava quella Atemwende (svolta del respiro, appunto) che secondo lui era il momento in cui, nella pausa impercettibile fra ispirazione ed espirazione, fra incameramento di vita e di mondo e sua reimmissione in circolo tramite il filtro del proprio respiro (le “proprie date”), la poesia perdeva il suo guscio di artefatto per diventare “stretta di mano” fra gli uomini. Il tuo libro è costellato di episodi “respiratori”, di tosse (“le infinite vasche / che ora nuoto e vuoto / polmoni e tossisco / sotto sopra avanti / indietro tossisco / la mia storia e tutta / la vita immortale”), di starnuti (“E invece sei pensiero starnutito / del tutto) e il concetto di Atemwende, di svolta del respiro, di poesia che nasce come fusione del proprio soffio a quello del mondo esterno (della storia) mi sembra calzare a pennello per la tua produzione in versi. Ti ritrovi in questa definizione celaniana? Celan è fra le tue letture ispiratrici? Quali altri poeti ti hanno influenzato in maniera più o meno determinante?
CP – Ti ringrazio, è un bellissimo “nodo” questo dell’Atemwende celaniano. E mi lusinga, molto, l’esito della “stretta di mano” che indichi percepibile anche in alcuni dei miei testi. La poesia per me è “popolare”, aspira a parlare a tutti; ed è un modo di popolare (inteso in questo caso come verbo) la propria solitudine. È lo scoccare dell’ora, il momento dello sparo, il sangue, l’istante della voce: è tutto quanto richiama a noi stessi, ci tocca e ci unisce.
Certamente Celan è stato tra le mie letture più importanti. Ma penso ad altri maestri che più direttamente mi hanno influenzato e continuano a farlo: penso al Vittorio Sereni più enigmatico, all’Amsterdam da lui dipinta nei suoi tre quattro fradici o acerbi colori e sui suoi canali vertiginosa, penso all’endecasillabo di Mario Luzi, penso alla voce di Mario Benedetti, penso a Milo De Angelis.