Ianus Pravo è nato a Treviso, e vive a Barcellona, in Spagna. Ha pubblicato, tra gli altri, i volumi di poesia, in lingua spagnola: “Mudrà”, El Caracol Nocturno Ediciones, Zaragoza, 2003. “N. S. A.”, El Caracol Nocturno Ediciones, Zaragoza, 2004. In lingua italiana: “Senz’arma che dia carne all’imperium”, con Leopoldo María Panero, pref. di Andrea Ponso, SEF edizioni, Firenze, 2011 – (versione spagnola: El Ángel Caído Ediciones, Las Palmas de Gran Canaria, 2015). Figura tra gli autori inclusi in “Poeti della lontananza”, a cura di Sonia Caporossi e Antonella Pierangeli, Marco Saya Editore, Milano, 2014). Ha tradotto in italiano, di Leopoldo María Panero: “Narciso nell’accordo estremo dei flauti”, Azimut Editore, Roma, 2005. “Dal Manicomio di Mondragón”, Azimut Editore, Roma, 2007. “Peter Pan non è che un nome”, (con Sebastiano Gatto), Poesie 1970-2009, Il Ponte del Sale Editore, Rovigo, 2011. “Il cervo applaudito”, EDB Edizioni, Milano, 2013. Ha avuto il Premio speciale del Presidente delle giurie a “Bologna in lettere 2021”, per la silloge “Segno e ventre”. In pubblicazione con Anterem Edizioni “Il cervo giudicato” (postfazione di Maria Grazia Insinga), finalista al Premio Montano 2021. Ha partecipato come autore e attore ai mediometraggi “Banned” (2013) e “Estantigua” (2014), con la regia di Irada Pallanca, NOoN films.
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Da Masada (I sezione di Stazione, inedito)
bebe la sed de un vaso que no bebe
Gabriel de Bocángel
Diagóras
abbattuto nell’agorá di Mostar
o l’altura concentrazionaria
di Masada
volto del diavolo Buddha sorride.
La carne è da riempire, e cede, e nulla
è volere, di una muta di rozze
rose il nudo spazio respiro.
Ciò che nutre mantiene vivi i denti
e la Pietà una nuda rivalsa, quos ego
risciama vibrazione all’icona
nei kare sansui, né tempo né spazio
al tempo a mano sugli occhi, allo spazio
arido che porge sete al chinarsi
del volto sul flusso lisoformico.
Dal sentiero d’acido, il lino
dello spazio aggroviglia un colpire a vuoto,
un espatrio, da bocca a rupe.
Dalle dita dei morti una genuflessione
è segnata alla fuga, un istantaneo
esperire il muro del rifugio e il vietarsi
ad esso come a un ozio
di denti. Vene di terra,
lanciate dalle nebbie che
l’avidità del regredire al compimento
ha sollevato, forano le braccia
agli esecutori di sentenze, li sentenziano
alla purezza del sentiero murato.
Ogni restare è intatto come un geco sulla calce.
*
Dal magro seno è ferma la ferita,
le dita labbra ricoprono il ventre
di una breve foce
i morti reggono lo stallo
ne fanno il proprio pane diurno.
Radicano le labbra una voce
asincrona, non ha un volto
non ha un nerbo a leccare
l’acqua ferma del tuo spazio.
Le mani a farsi bianche di putredine
nel sorriso le labbra a farsi bianche
a smorzare l’apertura e l’ingiuria
le labbra pazienti in un nodo d’usta.
Spreca il bianco la vipera
del marmo lupi di mosche
serpenti di teste
fiamme della carne sul guado
di un Negev tra bisturi e spugna
porzioni di cibo tra prossimo e
remoto e ospizio vortice
di aperto.
Lo smottamento d’immunità tra le sassate
molli della resa al respiro mentre ogni
duna ha annerito gli uccelli contro il bianco.
Non mi curo le cancrene la fame
del presente vuole ogni grumo
di forza.
*
Il ventre al volto
odore d’immagine rossa
copre la voce
copre l’orina il vaso.
Non sì, linguaggio dell’orina
sul linguaggio del vaso.
Due parole una fiamma sulla bocca
ch’êng ch’êng parlare luce nel ridare
cenere si cum cors envers il koto
possesso della luna il bianco è.
L’abisso di Masada ha tigri
di vomito e di Eden e lance
incuneate in guaine di terra
e pietre e denti a fior dell’ocra
che spogliano in molti
sessi l’unità del capire.
Girato di spalle alla natività
dell’arsura, i piedi coperti
di lucertole, abbassa il volto
sul colpo delle unghie
alla stazione, nella stazione.
Sul fondo di Masada vi è
una latrina, vi è tutto il fieno
della superficie battuta dal sole.
© Fotografia: Nerina Toci