Tra morte e compassione: gli scarni versi di Ungaretti come atto d’amore
In agguato
in queste budella
di macerie
ore e ore ho strascicato
la mia carcassa
usata dal fango
come una suola
o come un seme
di spinalba
Ungaretti
uomo di pena
ti basta un’illusione
per farti coraggio
Un riflettore
di là
mette un mare
nella nebbia[1]
Sono questi i versi che Giuseppe Ungaretti utilizza per raccontare la sofferenza e la guerra. Scarne parole e affilate, capaci di disegnare un’istantanea, dalla quale traspare tutta la brutalità del conflitto e l’assurdità della natura umana, in grado, nel male, di architettare la propria distruzione.
Con uno stile diretto e minimale, che risente delle avanguardie di dei primi del Novecento, ma con un’originalità che non ha precedenti, il poeta s’addentra così nella condizione umana, contrassegnata com’è da un’ineludibile precarietà. Il medesimo sentimento che Ungaretti ha conosciuto in trincea, allorché da interventista qual era, si ritrova misero soldato, gettato tra rovine di cadaveri e fango, assistendo quotidianamente alla morte e allo scempio, tra le grida e la fame. Proprio questa crudezza di temi e immagini diviene un manifesto che induce a una riflessione concreta sulla logica della violenza. Del resto, la poesia di Ungaretti non sarebbe comprensibile prescindendo dalla sua vicenda umana, in quanto il periodo della trincea rappresenta per costui un trauma profondo, nella rielaborazione del quale sono impiegate le parole, che, tuttavia, paiono condurre alla comune immagine di un’umanità sradicata e sospesa nel nulla.
Con un gioco frequente di analogie, tipiche del simbolismo, Ungaretti avanza tra le strofe con la schiettezza di chi ha vissuto in prima persona ciò di cui scrive. I versi si dispiegano pertanto privi di punteggiatura, come scene di un film il cui finale è imprevedibile.
Nella lirica Pellegrinaggio, per esempio, la strofa conclusiva è preceduta da un verso bianco, che indica la necessità di un respiro e un cambio di scena, prima dell’irruzione della luce che mette un mare nella nebbia. La luce emessa da un riflettore diventa, difatti, il simbolo di una speranza soffusa, ma che si fa strada tra il disfacimento del mondo e dell’umanità, aprendo a una dimensione spirituale, in cui “al nulla che tutto regge” si oppone il sentimento del coraggio.
Dunque, quello medesimo uomo capace di distruggere il creato, è al contempo colui che può risollevarlo dal male attraverso la speranza e la fiducia. La tensione tra distruzione e impulso vitale costituisce, perciò, uno degli elementi principali della poetica di Ungaretti, autore che, a partire dalla propria vicenda umana, ha sperimentato tale contraddizione.
La morte -che dilaga durante la guerra e nella miseria morale, invadendo il mondo con la sua forza disgregante- è così bilanciata dalla spinta alla vita di cui l’uomo è portatore. Tuttavia, tale impulso vitale abbisogna della disponibilità del soggetto a guardare oltre le macerie: l’indole progettuale e l’innato bisogno di futuro degli individui, unitamente all’attaccamento alla sopravvivenza, costituiscono, difatti, i fattori a partire da cui l’esistenza può ritrovare una forma e un seno, dopo stagioni di distruzione.
Nonostante questa volontà di vivere, la poesia di Ungaretti resta comunque segnata -sebbene talvolta in modo marginale- dal trauma della morte, subito anzitutto in trincea. Trauma che non abbandona mai del tutto l’autore, velando la sua intera produzione di malinconia. Il verso di Ungaretti è per questo scarnificato, frantumato come la psiche del soldato costretto a uccidere e a scampare quotidianamente alle mitragliatrici e alle bombe. Nel mezzo di un simile disastro, in cui l’interventista di un tempo -giovane ingenuo- si trasforma in poeta disincantato, le strofe affrettate evolvono verso una dimensione panica: un luogo immaginario dimorante, forse, solo nel cuore afflitto del poeta. La vita -pare dirci l’autore- pur nelle sue ferite, è tuttavia capace di fraternità, l’unico sentimento che può vincere la divisone della violenza. Del resto, proprio la miseria della nostra condizione ci rende fratelli, accomunati da un destino incerto e, per questo, bisognosi, anzitutto, di reciproci legami di compassione.
[1] “Pellegrinaggio”, lirica tratta da Porto sepolto (1916), confluito ne L’Allegria.
© Fotografia di Romano Gentile