Giuseppe Manitta “Gli occhi non possono morire”, Italic 2018. Nota critica di Giovanni Perrino
Non ho voluto chiedere conto all’autore ma il “Breviario di Ott” nella mia abissale incultura mi ha rimandato alla Liturgia delle ore, quelle brevi preghiere che la Chiesa raccomanda ai sacerdoti ma anche ai laici come invocazione corale che scandisce le ore e segna l’unità ecclesiale. Mi catapulto in questa spiegazione chiedendo scusa per l’eventuale gaffe di cui mi assumo la responsabilità.
Da questo personale percorso che spiega nel mio fantasticare sia la dimensione delle liriche (da Breviarium) sia il loro laico contenuto di preghiera e di raccoglimento, sono partito per andare a rileggere con enorme godimento uno dei libri più belli di Mario Luzi “Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini” in cui il poeta canta il suo percorso ad limina.
In questa elegante silloge di Giuseppe Manitta, come avevo intuito, ho trovato molte corrispondenze con quella raffinata collezione luziana di pizzi e merletti nella quale le parole della poesia si fanno musica nel gioco di struggenti accostamenti, di umane lacerazioni e pause di silenzio.
Giudico ancor oggi molto opportuna e giovevole tale rilettura che mi pare del tutto coerente con il mio proposito.
Lì e qui, infatti, lo sguardo sul mondo è solo un introibo, un percorso inedito in cui la parola liberata viene lanciata e lasciata correre, a guisa di cane senza guinzaglio.
Corre all’impazzata per poi fermarsi d’un tratto, smarrita, davanti a spazi improvvisi e sconosciuti.
“Gli occhi non possono morire” in tal modo appare in tutta la sua nudità, un’ad-ventura interiore che si fa ricerca dolente man mano che si inoltra nel vuoto della spazialità, ma che sa illuminarsi di pur fioca luce ai minimi segni che la vita quotidianamente invia anche nelle stagioni più buie.
Le parole, selezionate con cura certosina, si posizionano nei canti del Breviario in maniera millimetrica a costituire effetti, ora manieristici ora barocchi, di inedito e sicuro fascino per le ben riuscite emancipazioni dai canoni compositivi consueti.
Tale aspetto di novità qualitativa mi pare evidente ma mano che si procede in una lettura non affrettata e, se necessario, ripetuta, dei canti.
Cito ad exemplum il canto XXII: “Fioriscono anche le pietraie, / sudano le ossa dei mandorli / aspettando che l’ombra / di un bambino / appaia nella bufera / a coprire il deserto…”.
Da docente mi divertirei a chiedere ai miei studenti di individuare i colori in questi come in altri versi di Manitta. Sono infatti convinto che i suoi versi, pur nella tenuità, abbiano una luminosità loro propria.
“È inverno. / La luna / cade dalle gocce dell’alloro / parla di sorrisi / e osserva. / La bambina blu è fuggita. / Non tornerà più.” (I, 17).
E poi andando avanti: “Ariamo le stelle / per coltivare / la luce chiusa nel pozzo. / Il vento pascola nella solitudine / e il macero dell’uomo / gocciola sulla terra. / Ariamo / la luce chiusa nel pozzo, / il vento / e perdiamo l’anima.” ( IV, 18). Penso ai miei ipotetici studenti e confermo l’efficacia di una tale lettura-analisi.
Il viaggio verso le radici, ad infinitum, come lo sguardo dell’amato Leopardi, procede, cita luoghi non luoghi, li cita e subito dopo li elide confermando che quei topoi servono per dare forza allo spaesamento: Trezza, La Giudecca, Monte Pellegrino, Gerico, Gerusalemme perdono la dimensione geografica e restano nell’anima.
Da tale apparente esplorazione di luoghi fisici, il poeta ci porta a sostare, il viaggio diventa transito, cammino impervio e oscuro, ancora una volta itinerarium ad infinitum che, nel farsi poesia, diventa metafora del mondo, specchiamento dell’uomo nella immensità del creato.
La liturgia è anche offerta faticosa, preghiera che fatica ad uscire dalle labbra e dagli occhi: “Il gelo ha plasmato le rocce,/ha scavato nella sabbia/per trovare le lacrime/ della Maddalena./ Ha fatto urna/delle mani ossute…” (XXIV, 40); e prosegue nel XXV, il successivo: “…È stanca la pietra sull’altare, / ha smarrito Dio nell’ampolla, / piena di vino e di fango”. E conclude nel XXVI: “Era sera, / la casa di Giosuè / sulla collina / respirava i mandorli spenti / e il silenzio degli altari…”.
Ecco il breviario, la preghiera laica ma intensa e stralunata del poeta dove il pellegrinare sosta in silenzio ad ascoltare l’anima mundi.
Il viaggio si riavvolge: “La vecchia zolla lanciata fra la lava / è cimitero di ricordi, / è l’ossario di una terra, / è polvere, ambra, / rovi . / Eppure germoglia ancora. ( XXVIII, 44).”; e subito dopo: “Domani pianteremo un altro gelsomino, / a Gerico.” (XXIX,45).
Avrei voluto evitare di ripetere la citazione, ma, quando il gioco si fa duro, come non pensare all’immenso Leopardi, più che ai “Canti”, alle “Operette morali” e allo “Zibaldone”?
La sua ombra aleggia in tutta la silloge ma si materializza laddove prevale la sconfitta esistenziale, la condanna senza appello laddove… “La pioggia ogni giorno, / nel primo pomeriggio, scioglie le voci, / i volti / tarlati dalle formiche / che chiedono perdono / per una colpa / che non hanno commesso. / Attendono, /abbracciati ai cipressi / l’ultimo canto.” ( XX,36).
Nel raffinato lavoro manuale delle singole composizioni, le parole urlano sfinite dal pianto e dal dolore ma non perdono mai l’autocontrollo e la dignità. No, non è all’urlo di Munch che penso quanto al Guernica di Picasso, a quella lampadina che dà luce al modesto luogo e vince il buio e, con questo, la morte. È lì, in quella stanza-mondo, che ritrovo l’amico poeta Manitta. Anche il suo lavoro, come quello del sommo Maestro, viene da lontano, viene dal dolore del mondo, è un lavoro artigianale come lo è, in pittura come in musica e in poesia, il più classico pojein, affilato, fatto col bulino.
Ma in queste poesie gli occhi, come dichiara già il titolo, non possono morire, lo sguardo del poeta resta asciutto e attento, analizza come in un laboratorio di ricerca, mai un cedimento al dolore o alla compassione, men che meno al lacrimevole.
Il bisogno di poesia in Manitta parte di certo dall’accettazione del mal de vivre e la lezione di Leopardi continua a vivere nello spleen baudelairiano, da quella Via Crucis laica, e quando… e quando… e quando… quel salmodiare che interroga, chiede una pausa di riflessione, conosce l’irreversibilità della parola poetica e la sua capacità di svelamento.
Tale presa di coscienza non è comunque mai una resa; si riflette a capo chino ma poi ci si raddrizza per guardare in faccia la realtà e da essa, dal buio più buio, nasce l’Avvento, l’Attesa di una luce nuova anche se fatua ma in grado di conferire senso e delineare i contorni di ciò che resta della notte.
Dal canto IX di chiusura ho sottolineato i versi seguenti: “Il treno scrive litanie / sui petali a festa / sospese…”. Ecco, l’idea che vi siano petali a festa mentre avverto il rumore sordo del Breviario che ruzzola, mi raschia la gola e nel petto qualcosa pulsa. Grazie poeta, da amico ad amico, in verità.