Giuseppe Carracchia, Prova del nove (Ladolfi editore, 2015). Lettura di Gabriella Mongardi
Giuseppe Carracchia, Prova del nove, Ladolfi Editore 2015.
La poesia, una “gemma nell’irrisolto”
Lettura di Gabriella Mongardi
Lo confesso: Prova del nove mi ha conquistata fin dalle prime pagine, perché vi ho trovato le parole che più amo, parole “scientifiche” e “alpinistiche”: la mia non sarà quindi una recensione fredda e distaccata, ma una lettura che andrà a caccia di gemme, cioè di parole preziose in sé o rese tali dal collegamento con le altre, da quelle callidae iuncturae che – Orazio insegna – creano metafore folgoranti.
E qui – ripeto – tali gemme abbondano fin dalla poesia di apertura, in cui è istintivo vedere in quei “matematici furiosi o botanici” le controfigure dei poeti, che vivono in situazioni di marginalità (“le periferie del gelo russo”, “letteralmente morti di fame di stenti”), ma riescono a volte a dettare, con uno strumento di comunicazione obsoleto come la “cornetta a gettoni” le loro soluzioni a “problemi / che i più non immaginano / ma vivono giorno dopo giorno”. Come quelle cornette, la poesia è uno strumento di comunicazione d’altri tempi, fuori moda e fuori posto – sembra dirci il poeta, che pure non vi sa rinunciare. La poesia è una forma di resistenza – o di resilienza – all’insensatezza del mondo, all’andazzo dei tempi, in nome di “una quinta dimensione, agognata / salvezza”, “alla ricerca del punto che svirgola la storia / e strappa o volta o mette orecchie alle pagine”.
Compito del poeta è “tracciare mappe sconosciute dal male al bene”, “imparare a volare, scavalcare, cercare / pazientemente porte / disseminate qua e là, nascoste” e come fa l’alpinista – altro esperto di strapiombi – riconoscere “su pareti di granito […] fessure e faglie” dove aggrapparsi per “spingere in alto la nostra storia”.
Quando si arriva alla fine del libro, si capisce che i primi testi lo contengono già tutto in nuce, sono la nebulosa primordiale da cui tutto nasce, e che nelle successive liriche ritorneranno costantemente le parole-chiave (“scientifiche” e “alpinistiche”, appunto) qui agglutinate come particelle in attesa del Big Bang creativo. Si tesse in questo modo una rete di percorsi “ipertestuali”, da una parola preziosa all’altra, e ogni lettore si costruisce, per così dire, il “suo” libro: addiziona, sottrae, moltiplica, divide e poi fa la sua “prova del nove”, per vedere se i conti tornano. Ma forse, credendo di farla al libro, finisce col farla a se stesso.
Ad esempio, il tema dell’irrisolto, enunciato nella poesia-manifesto, poi sparisce come un fiume carsico per riaffiorare solo in chiusura, in A un giro di boa dalle tue contraddizioni, l’ultima parte di Prova del nove, dove “la luce / devia, svirgola / originando un nuovo percorso / nello spazio, un nuovo astro” e “Il ritorno dell’irrisolto pretende / sospensione, richiede /che tutto venga accolto”. Proprio questo ambisce a fare il libro di Carracchia, proprio per questo il lessico scientifico innerva così ampiamente il suo vocabolario, non per “messinscena”, non per barocca ricerca di “meraviglia”, ma perché è la lingua della scienza quella che sa nominare le cose con la massima precisione possibile, ed è dalla massima possibile aderenza alle cose che anche la poesia deve partire, per non ridursi a vuoto verbalismo insignificante.
Prova del nove è un libro composito, complesso: non è una semplice raccolta di “tutte le poesie fin qui scritte dal poeta”, ma appunto un universo con una sua precisa struttura e articolazione interna, e ogni poesia non potrebbe stare da sola, legata com’è, da una trama di rimandi e richiami, alla precedente e alla seguente e alle altre di questo “organismo”. Il libro si compone di otto sezioni, come otto canti di un poema, ciascuna delle quali deriva il suo titolo da un componimento, che non è mai quello di apertura. La sezione introduttiva, “C14”, e quella conclusiva, “Spegnendo il lume”, comprendono solo quattro e cinque componimenti rispettivamente, mentre le altre, “Moti e rivoluzioni”, “Appunti dall’orto”, “Presocratica”, “Dall’uno all’altro”, “Geografia della ricerca”, “Genealogia delle distrazioni”, sono molto ampie e suddivise a loro volta in sottosezioni (tranne “Presocratica”); a volte, anche i singoli componimenti (poemetti) sono suddivisi in parti. “Presocratica” segna una svolta: a partire da qui la tensione dialogica cresce, la poesia diventa un mosaico di tessere da rimettere insieme, un incrocio di voci da armonizzare.
Carracchia è un poeta dal fiato lungo, la sua poesia ha ambizioni trattatistiche, o meglio di poema didascalico alla maniera classica, dei filosofi-scienziati presocratici. Ma se per gli antichi la scelta del verso anziché della prosa era per così dire una scelta obbligata, in quanto in una cultura dominata dall’oralità il verso con il suo ritmo facilita la memorizzazione e le immagini sontuose che distinguono la lingua poetica da quella standard traducono concretamente, rendono visibile l’intuizione del filosofo, qui la poesia è una scelta di libertà, di anarchia, una forma di ribellione alla lingua stessa. Definirei espressionistico lo stile di Carracchia, per la sua tensione a de-formarsi, ad andare oltre la forma – parola che compare addirittura in un titolo Attorno al titanio. O “Della forma”, cui risponde, poco più avanti Franco tiratore. O “Del deformarsi”. Il primo testo di questo dittico pone al centro “il dubbio della forma / nella sua evoluzione” e cita tre strumenti dell’attività artistica, intesa come un dare forma: “uno scalpello, una penna, un pennello”: un esatto endecasillabo con rima interna. Ma a parte qualche isolato endecasillabo, e la struttura strofica della canzone come reminiscenza riconoscibile dietro le tre strofe lunghe seguite da un “congedo” di tre versi, questa lirica è senza forma: la sintassi tende a sfaldarsi, le immagini a susseguirsi senza logica apparente e la forza del titanio nelle ossa sembra derivare, paradossalmente, dalla “storia di innumerevoli fratture”. Il tema è ripreso, su un registro ironico, in Franco tiratore. O “Del deformarsi”, che si apre con l’immagine di un uomo che corre lungo il Po per “tenersi in forma” e si chiude con la constatazione che “la forma non è / un problema; anzi lo è” – e cercarla a ogni costo vuol dire “deformarsi”.
Entrambe queste liriche rientrano nella “Genealogia delle distrazioni”, per la precisione appartengono alla sottosezione “Prova del nove”, che dà il titolo all’intera opera e lo deriva a sua volta dal componimento eponimo, Prova del nove: una lirica che ricorda Piccolo testamento di Montale o Congedo del viaggiatore cerimonioso di Caproni, e sorprende, perché imprime una svolta inattesa alla raccolta – forse è questa poesia il “punto che svirgola la storia / e strappa o volta o mette orecchie alle pagine” di cui si diceva all’inizio. Di Piccolo testamento ha la tensione verso l’altro, la volontà di lasciare un messaggio, un’eredità, annunciare “la validità” di una “forza inspiegabile”; di Caproni ha la situazione del viaggio in treno, evocata nelle prime due parti, con l’immagine di “questa guancia poggiata / sul finestrino” durante il viaggio e quella dell’inginocchiarsi all’arrivo “(che sia un bosco o la stazione / centrale)”. Di Carracchia ha la conclusione, disarmante e profonda insieme:
La nostra prova del nove eccola qua, la più autentica benedizione: aderire pienamente, nient’altro che una questione di grammatica primitiva, di sintassi del reale.
Basta imparare a parlare, con il poeta, la lingua della vita: “la prima persona incontra / la seconda e insieme / declinano la prima plurale”…
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