Giovanni Orelli, L’opera poetica. Con inediti, introduzione di Pietro Gibellini. Con una nota critica di Massimo Natale, Novara, Interlinea, 2019, pp. 670.
Se si mettessero in una tavola cronologica le opere di Giovanni Orelli (Bedretto, 1928 – Lugano, 2016) in prosa e le opere in poesia, si potrebbe notare nelle prime un’evoluzione dalla forma romanzo – con un esordio notevole: L’anno della valanga (Mondadori 1965) – alla forma racconto, essendo la seconda più concisa e probabilmente più adatta all’impronta ragionativa, più che narrativa, dell’ultimo Orelli. Nella seconda colonna della sinossi si noterebbe che la poesia nasce più tardi: Sant’Antoni dai padü, (Scheiwiller 1986), altrettanto notevole, e che la scrittura poetica col passare del tempo infittisce i suoi frutti mentre la prosa tende a diradarli. Quasi che l’autore abbia sentito l’esigenza di passare da forme ampie e distese ad altre più economiche ma non meno articolate, stratificate.
Per misurare lo spessore della scrittura di Orelli, è oggi indispensabile questo volume che ne raccoglie L’opera poetica, con alcuni inediti, accompagnata da un saggio introduttivo di Pietro Gibellini, legato a Orelli da lunga amicizia, da una nota di Massimo Natale e dalla ristampa delle pagine critiche già premesse alle singole raccolte, di Remo Fasani, Pietro De Marchi e dello stesso Gibellini. Il volume è diviso in due sezioni, quella dei versi in italiano e quella dialettale, all’interno delle quali le raccolte sono disposte secondo la data di pubblicazione. La Nota al testo lascia intendere che le carte di Orelli conservano altri versi (alcuni furono offerti nel numero del «Cantonetto» dedicato allo scrittore nel 2018), sui quali sono in corso ricognizioni filologiche; e potrebbero confluire nell’appendice di una futura riedizione del volume, che nella forma attuale rispetta la volontà autoriale, e consentirà di rimediare ai refusi inevitabili in un’opera così vasta.
Il robusto libro permette di pesare il valore di un’opera ingiustamente sacrificata nei manuali scolastici e nei recenti studi complessivi: Orelli non figura nelle antologie dedicate alla poesia degli ultimi decenni e nemmeno negli studi critici volti a fare il punto sull’uso delle forme chiuse (benché nell’impiego del sonetto sia un maestro); benché le sue opere siano nei cataloghi di editori quali Mondadori ed Einaudi (i romanzi), Scheiwiller e Garzanti (le poesie); e nonostante le opere siano state tradotte in varie lingue non solo europee e i prestigiosi riconoscimenti ricevuti (ricordiamo almeno il Gran Premio Schiller per l’intera produzione).
Il volume è anche occasione per qualche riflessione sull’opera stessa. Nel testo Un bòtt can c’ i sévi murúsa (p. 516) – il dialetto è veicolo imprescindibile della poesia di Orelli – si incontra un ultimo verso in italiano: «scorporata dal suo essere mamma»; alla domanda: come mai un inserto inatteso, e anche un po’ violento, in lingua, l’autore rispose che in dialetto «quella cosa lì» non si poteva dire. Certo ci sarebbe da chiarire cosa sia quella cosa lì, e noi per brevità e comodità la chiameremo semplicemente idea, ma l’episodio illustra sia la consapevolezza dei limiti della lingua (in un autore poliglotta) sia la prevalenza accordata a ciò che si vuole dire, rispetto alla lingua impiegata.
Per l’autore ticinese infatti la scrittura è soprattutto il luogo delle idee, è uno spazio dove proporle al lettore e farle circolare; dove appuntarle, anche, per poi riprenderle elaborate e modificate dal passare del tempo e dal tornarci con la memoria, sfrondate di quanto non era essenziale; riproporle dopo che il rimuginìo le ha rose e indurite fino a conservarne il deposito più cristallino; viene in mente la pazienza degli animali, capre e rane soprattutto, all’autore tanto cari. L’indizio di questo procedimento è la ricorrenza di alcuni temi e motivi: fra i primi metteremmo il problematico rapporto padri/figli (qui si veda almeno p. 60 e p. 518 ma si trova anche nel Sogno di Walacek e negli Occhiali di Gionata Lerolieff), la condizione degli emarginati oppure delle donne (temi frequenti, qui e nelle prose); fra i secondi segnaliamo l’episodio biblico di Giuditta e Oloferne (qui a p. 320 e nel Treno delle italiane), della fascina mal legata (qui a p. 506 e ancora nel Treno delle italiane) e altri.
Le idee sono ciò che più interessa all’autore che, per questo, riprova e ripropone, cerca il taglio più corretto, misurando le sfumature che una diversa lingua può dare, sia l’italiano, il dialetto o la resa sulla pagina ottenuta a partire da lingue differenti. Quest’ultimo punto risulta evidente se si pensa all’Orelli traduttore che volta nella parlata bedrettese dai classici: Dickinson, La Fontaine, Catullo, San Paolo, o una strofa cassata della Pentecoste di Manzoni; come a dire, se si esclude l’inglese, da lingua morta a lingua morta. Non per semplice esercizio intellettualistico, semmai per curiosità intellettuale, per dare nuova forma a talune idee che, per mostrarsi al meglio hanno bisogno dell’abito adeguato, e il poeta è colui che si sforza di trovarlo.
Ma nei pressi di alcuni temi, nei dintorni di alcune idee, Orelli ci conduce anche ricorrendo a toni modulati su un ampio spettro di possibilità: dal riflessivo allo scanzonato, dall’ironico al beffardo. Si vedano i modi con cui, in Né timo né maggiorana e nell’Albero di Lutero (Marcos y marcos 1995 e 1998), insiste sui temi della vita e della morte, a quest’altezza cronologica quasi un’ossessione, con sonetti riuniti in brevi gruppi tematici disposti alternatamente. La rilevanza di questi argomenti è evidente già all’esordio poetico: il primo testo di Sant’Antoni dai padü, è una filastrocca di ottonari prevalentemente tronchi che, come un breve omaggio alla vita, canta l’attrazione dell’uomo verso «la tusa biunda» incontrata sul treno e finisce però con un cenno alla morte: «é ‘l mé pà l’é nècc in Bregn / a crumpè ‘sacch det castegn / par mi par ti / par chèla végia cé l’à da morì» («che mio padre è andato in Blenio / a comprare un sacco di castagne / per me per te / per quella vecchia che ha da morire»); analogamente il primo verso di Concertino per rane (Casagrande 1990), esordio poetico in lingua, recita: «Quando la morte verrà». La morte è dunque ben presente nei testi benché Orelli sia almeno altrettanto un poeta della vita e dell’energia vitale che si manifesta soprattutto nell’eros: numerosi sono i testi che lasciano intravedere un sorriso divertito e quasi beffardo, cenni d’intesa al lettore, invitato a cogliere un’occasione in cui si manifesta la vitalità della natura umana; ed è altrettanto un autore della pietas, intesa come attenzione alla sofferenza altrui, come cura di ogni forma vivente, fosse anche un’umile rana; attenzione sulla quale si sofferma opportunamente Gibellini nella lucida introduzione costruita su coppie oppositive di concetti-guida.
Ma che la scrittura sia luogo delle idee è suggerito anche dalla pratica della citazione, abituale e scoperta, di cui ci svela qualche indizio Natale, accostandosi alla raccolta inedita. Basterà qui ricordare che molti dei sonetti sono nati quali commenti a passi di autori prediletti oppure di notizie apprese da quotidiani (Orelli era lettore onnivoro e infaticabile); al punto che si potrebbero considerare – quelli di Né timo né maggiorana e dell’Albero di Lutero certamente – una sorta di commentario alle letture, paragonabile, probabilmente, a un diario di formazione, documento utile a recuperare percorsi di frequentazioni quasi sterminate. Orelli sosteneva che le citazioni vanno scrupolosamente dichiarate, secondo un precetto di onestà intellettuale trasmessogli dal maestro Giuseppe Billanovich; ecco dunque le scrupolose note ad ogni volumetto, compilate col gusto di mettere il lettore sulla traccia giusta. Se numerosi sonetti sono la rielaborazione di molteplici sollecitazioni coagulate intorno ai temi della morte e della vita (a ben vedere, le due facce di un unico grande argomento), sono anche la convocazione di una quantità di passi o spunti, una fitta trama di relazioni, di domande e risposte che rilanciano osservazioni a chi vorrà raccoglierle o discuterle, com’è nell’ufficio della cultura umanistica e preumanistica di cui Orelli era fine conoscitore.
Pratica citatoria e rielaborazione originale sono due cifre di L’eterno imperfetto (Garzanti 2006), il cui titolo riprende una formula impiegata da Proust per la prosa di Flaubert; non per caso, dunque, l’autore di Madame Bovary è richiamato in apertura di ogni sezione. Il testo si può leggere come un breve trattato di filosofia in cui la logica, la disciplina del ben ragionare, fa da padrona di casa, e la veste sistematica che la griglia delle categorie grammaticali offre ai testi è la sistemazione di riflessioni multiformi intorno alla vita e alla morte (ancora) e ai valori intorno a cui, suggerisce Orelli, converrebbe confrontarsi. Le poesie pubblicate successivamente (ad eccezione dei divertissement per i nipoti) e anche Imaginativa, trenta sonetti inediti qui inclusi, offrono una prospettiva coerente agli ultimi sviluppi della poesia orelliana, riflessiva e razionalizzante. Il dantesco Imaginativa, che vale fantasia, è solo apparentemente in antitesi col procedere logico dei testi: Orelli, accentuando un’indole che denotava raccolte precedenti, invita spesso a ragionare sul filo del paradosso, dell’ironia. In questi ultimi sonetti è dato inusualmente spazio al dubbio, alla vis dialettica dell’autore che incalza chi legge con serie di interrogazioni – alcuni testi sono fatti solo di domande –; il pungolo di chi scrive è diretto a un interlocutore che non è dato distinguere dall’autore stesso e il dialogo sfuma nel monologo. Emergono così, per un verso, la libertà sempre più rara nella poesia contemporanea di assumere come soggetto alcuni temi (per capirci, ecco alcuni titoli: Scetticismo, Autorità, Buon senso, Libero arbitrio, Saggezza, Etica, Giusnaturalismo, Dialettica, Virtù, Gioia, Cultura, Catarsi, Sapienza, Ontologia, Positivismo, Metafisica) per un altro verso, confermano la funzione maieutica della poesia, già evidente in altre opere e probabile reminiscenza dell’amato Montaigne. L’originalità dei testi di Orelli poggia quanto meno su questa libertà e sulla maestria rara di saper condensare in quattordici versi acume e rigore.
La priorità accordata alle idee ne fa un autore lontano dalle correnti poetiche e artistiche del secolo scorso – secolo in cui si è formato e ha pubblicato il maggior numero di opere – ma ne fa anche un poeta proiettato verso il futuro, come si conviene agli autori più solidi. La pubblicazione è dunque opportuna, sia per il valore dell’opera, sia per quanto può contribuire a delineare il panorama letterario degli ultimi decenni.
Massimo Migliorati