Gianni Montieri, Ampi margini (LiberAria Editrice, Collana Penne, 2022)
Nota di Paola Mancinelli
Gianni Montieri in questa raccolta dal titolo Ampi margini, pubblicata a metà marzo da LiberAria Editrice nella Collana Penne, entra nel vivo della storia di città diverse che hanno in comune lo stesso sentire: Napoli, Milano, Venezia, Torino. Ci accompagna per mano lungo i quartieri, le strade, i palazzi, i rioni. La cifra distintiva propria del racconto è il suo declinarsi in una concretezza ed un’esperienza visiva, al contempo sonora, dunque tangibile, calata in un intenso realismo quasi cinematografico, dove ogni sequenza del dettato si muove tra inquadrature diverse e piani differenti del sentire.
Percorrendo le nove sezioni/capitoli del libro ci si addentra in un dinamismo che domina fortemente l’andamento narrativo. Il punto di vista dell’autore rispetto alla realtà che intende rappresentare abbraccia campi lunghi, spazi, luoghi, registra primi e primissimi piani sui volti e sui gesti di persone care, cogliendone l’unicità come in un fermoimmagine. Sullo sfondo il paesaggio e grandi spazi cittadini.
Numerose le citazioni letterarie e storiche che confluiscono nei testi, tanto da diventare parte integrante del verso. Questa preziosa attitudine dell’autore a ricercare le fonti e le origini di ciò che è presente davanti al suo – e ora al nostro sguardo – si declina in vera e propria istanza archeologica che allarga la sua coniugazione anche alla sfera dei sentimenti, alle emozioni date. Tutto è ricerca, scavo, ricordo, traccia di vita. Una toponomastica della memoria che è promessa di avvenire. Salva dall’oblio e resta per sempre.
Un riferimento emblematico è il rimando al testo Malacqua. Quattro giorni di pioggia nella città di Napoli in attesa che si verifichi un evento straordinario, celebre romanzo di Nicola Pugliese e di nuova, prossima pubblicazione per Bompiani. Tra crolli, frane, maltempo si traccia una linea invisibile come recita nel testo che apre la raccolta […] la linea invisibile/ che attraversa Napoli, prende/ il suo cuore e lo racconta:/ ricama nell’ombra della strada, scava/ dentro me e mi trova./ [12]
Montieri conferisce voce ai luoghi, li cattura nella loro unicità e bellezza, esaltandone l’imperfezione e quel senso stravolgente di nostalgia che si fa eco del tempo, memoria pellegrina, richiamo amplificato di polvere e perdono. I palazzi, le strade, i cortili, il cuore urbano delle città, tutto si muove tra silenzio e grida. I luoghi eterni nella loro caducità spiccano trionfanti con le loro crepe e impalcature, si infilano nelle pieghe di una storia personale. Ecco così che sulla scena fa il suo ingresso Il Palazzo delle Vecchiarelle, noto anche come Oratorio di Santa Maria della Fede, un tempo ritiro penitenziale femminile, poi riconvertito in spazio collettivo con il nome di Santa Fede Liberata.
Luoghi incarnati, perché vissuti, quartieri, vicoli, palazzi, piazze, tutto è intrecciato nella metafora del viaggio. L’autore traccia una dimensione temporale di andata e ritorno. Una ciclicità che tocca le tappe dell’infanzia, dell’adolescenza e dell’età adulta, in una tensione e una prospettiva al futuro. La scrittura è pervasa dal paradigma della cura, dell’attenzione alle cose tutte, senza esclusione di sorta. Prendersi cura è preservare, è custodia, non è un cautelarsi, ma è salvare, conservare, difendere. Salvaguardare. È la prerogativa umana di chi ama.
Così nella sezione Con mio padre forti sono i rimandi alla quotidianità dei gesti, alla sfera colloquiale, alla minaccia del procrastinare. Il padre insegna al figlio il calcio all’ungherese. Il cortile è lo scenario dell’agire personale e collettivo, un allenamento del sentire, i primi passi di una regola antica che si impara stando “dentro” alle cose, superando la patina dell’indifferenza e dell’abbandono […] ti salutano tutti, pure le pietre/ ci teniamo sottobraccio, rallento/ senza farmi scoprire, spezziamo/ per un istante lo stesso fiato […] e poco più avanti […] ti togli il cappello che ti ho regalato/ guardiamo gli altri passare/ stringiamo un poco gli occhi/ al posto della gente vediamo il mare. [29] per poi culminare in un accorato anelito del cuore: Vorrei che queste poesie/ le leggessi prima che sia tardi/ eppure non so se sia il caso;/ come tutte le volte/che dovevo parlarti/ e ho rimandato, o tutte le cose che volevi dirmi/ e non è capitato./ [30]
La fragilità dell’esistenza, il fascino decadente delle rovine, lo sguardo che si posa sulla memoria delle cose, sulla loro superficie e scardina i confini, smargina, va oltre, come solo la parola poetica può fare, precisando con chiarezza nomi e batticuori, alzando il velo che cela il senso originario e conduce allo svelamento del tutto con il noi. Ecco il potere delle parole che cambiano il cuore e la visione sulle cose: Chitammore, nella voce di un ragazzo/ mentre rischia di essere investito/ pensa a Chitemmuorte, ma poi la vede/ così bella che non sa insultarla, rapido/ come il fulmine toglie ‘e muorte/ e mette ammore, risolvendo/ tra battito e matematica applicata/ ogni tipo di equazione. [15].
Non resta che mettersi in ascolto per far riaffiorare il ricordo, vivo e presente della storia di un luogo, di una casa, perché i luoghi e le case non sono mai vuote, se non quando ci si dimentica di chi le ha vissute e amate, fino all’ultimo legno. Eppure la fragilità racconta di un tempo che parla ad ognuno di noi e ci interpella: Fossero di piombo fuso le case vuote/ – abbandonate quasi mai per scelta – / o di materiali sconosciuti, fragilissimi/ le ameremmo comunque, le pareti vibrano:/ hanno assorbito gli anni/ le storie di ogni famiglia povera/ di ogni appiccicata, alluccata/ ancora tremano i tavoli per il peso/ di un pugno sbattuto, […] [21]
La poesia di Montieri è incarnata in luoghi e situazioni concrete. Tra questi primeggia il campo da calcio, palestra di vita e palcoscenico dell’agire fin dai primi passi. Non a caso il titolo Ampi margini rimanda al gergo calcistico, alla porta da calcio che delimita un perimetro. Ma è anche spazio, luogo della possibilità fuori contorno, metafora di tutti i perimetri, limiti e confini entro i quali si gioca l’esistenza umana. In questa tensione prospettica si prefigura un territorio della memoria e del presente con un guizzo di visione verso ciò che non è ancora.
Ad ogni incedere di pagina si delinea un costante rimando ai luoghi dell’infanzia, si disegna il profilo dettagliato di un quadro in cui ogni tessera è determinante per una visione d’insieme. Si potrebbe parlare benissimo di un’antropologia dei luoghi, una dimensione domestica dello spazio e del ricordo, dove il valore simbolico della parola e del gesto reggono l’impalcatura del racconto.
Si legge nella nota di lettura “[…] I versi di Ampi margini raccontano di adolescenza, di affetti, di cose che non si dimenticano, di morte, di infanzia, di posti in cui era vietato sognare. Sono testi che hanno a che fare con i ritorni; soprattutto su come si ritorna, come si riconosce il luogo, come si fa pace con i nostri passati. Sono testi che tentano qualche domanda senza trovare risposta. L’idea è stata quella di portare a termine un lavoro e un viaggio, e che nel vagone prendesse posto il perdono e che si conversasse dell’aver cura di tutto, di ciò che è stato, di ciò che abbiamo imparato, di ciò che abbiamo perduto, di chi si ama, dei giorni a venire.” […]
In copertina illustrazione di Vincenza Peschechera
Dalla sezione A mio padre
Adesso mi piace venire al cimitero
da te, mettermi di spalle alla tomba
guardare quello che tu vedi
distese di lapidi e di cappelle
squarci di strade che si intersecano
i tralicci dell’Enel, più avanti
sullo sfondo dev’essere la casa
di zio Antonio, due curve dell’Asse
Mediano se mi volto a destra
il vento di dicembre sulla sciarpa blu
stai al terzo piano e devono piacerti
i cavalli in basso oltre la strada
a sinistra la collina, forse i Camaldoli
tu vedi di più, io lo so che il tuo sguardo
arriva fino alla costa, taglia in due
la Domitiana, si spinge e tiene
insieme tutti i nostri passati.
[41]
Dalla sezione Avremo cura
Milano mi somiglia, non il fiume
che l’attraversa all’ora dell’aperitivo
l’aprire e chiudere il giornale,
il doppio giro al collo
che fa la sciarpa in pieno inverno
nemmeno stasera che vado
in bicicletta verso casa
a volte è il grigio che disegna la Ghisolfa
o il suono secco della parola Lambro.
Cose che si tengono da parte
come vestiti che non vuoi buttare.
Mi somiglia nei pomeriggi estivi
quando stiamo zitti entrambi
stupefatti dal colore che fa verso le sei
il sole, quando piomba in fondo al viale.
[48]
*
Sapevo sarebbero tornati i treni
i racconti da rotaia, il posto,
qualche volta, accanto al finestrino
l’amore, certamente
di avere distanze da accorciare
– il bianco della neve sui binari –
il calore che viene da case appena scorte
i viaggi: questioni invernali
taccuini da riempire
sapevo le facce degli altri passeggeri
l’aria stanca da venerdì pomeriggio
di questo conoscevo quasi tutto
che si è fatto tutto in una sera gelida
e oltre il vetro, guardando
un luogo che non c’è, ho pianto.
[52]
Dalla sezione (Sud) In caso di morte
C’erano ampi margini, confini,
scatti da fare sul fondo, e l’erba
tagliata male. Crossare al centro.
Uno a saltare di testa, potevamo
crescere, raddoppiare in difesa.
Poi cosa è successo? Uno ha preso
un treno, uno è saltato di testa
o per aria. Alcuni sono rimasti
all’intervallo e non si rivestono
un altro ha ancora su la maglia
aspetta il lancio in verticale,
la svolta, ma non ci sono piedi
buoni, né arbitro, guardalinee,
non c’è pubblico, non c’è tribuna
solo il replay di un fuorigioco
fischiato da nessuno.
[79]
*
Scrivere di una madre
farlo in una sera di febbraio
riporre, seguendo uno schema
i piatti asciutti in credenza
poi i bicchieri, le tazze
nel mobile più in alto.
La somma delle rinunce di una madre
di seguito la teoria del sottrarsi:
meno cose – meno vestiti – meno me
applicazione scientifica del dare:
più sacrificio – più amore – più esserci.
Dopocena faccio cose del genere
quando sto in casa e non esco
non guardo la tele e nemmeno scrivo
sarebbe facile spiegarti il bene che mi fai
più facile con la neve fuori
invece mi accomodo in poltrona
controllo la posta e non ti chiamo.
[93]
Dalla sezione Futuro semplice
Ti telefono da una retroguardia
un metro al di là della linea di confine.
È un maggio di un altro secolo
un mattino bianco e distante
privo di contatto
– non c’è campo –
piuttosto terra arsa
ci attende un lungo giugno
lampi d’estate di cui avremmo fatto a meno.
[117]
_____________
Gianni Montieri è nato a Giugliano, provincia di Napoli nel 1971. Dopo aver vissuto per molti anni a Milano, adesso vive a Venezia. Ha pubblicato quattro libri di poesia: Ampi margini, (LiberAria, marzo 2022) Le Cose imperfette (LiberAria, 2019) Avremo cura (Zona, 2014) e Futuro semplice (2010). A ottobre 2021 è uscito Andrés Iniesta, come una danza (66thand2nd). Suoi testi sono rintracciabili nei numeri sulla morte (VIXI) e sull’acqua (H2O) della rivista monografica Argo e sui principali siti letterari italiani e nel numero 19 della rivista Versodove. Ha riscritto la fiaba “Il pifferaio magico” per il volume Di là dal bosco (2012); il racconto “La sarta di Herrera” per Deaths in Venice (2017). Sue poesie sono incluse nel volume collettivo La disarmata (2014). Nel 2020 ha pubblicato il racconto “Abitava a Santa Chiara” per il numero 2 “La città muta” della rivista monografica Menelique. Sempre nel 2020 è uscito il racconto “Un futuro di Gianni Rivera”, in 12 storie di sport Per rabbia o per amore, pubblicato da 66thand2nd con Effe. Nel 2021 è uscito “Voci azzurre” un racconto/reportage su tifo e città nel numero su Napoli di The Passenger (Iperborea). È stato redattore della rivista monografica Argo. È tra i fondatori del laboratorio di scrittura Squero della parola. Scrive di calcio su Il Napolista. Collabora con, tra le altre, Il Manifesto, Esquire, minima&moralia, Rivista Undici, UltimoUomo e Doppiozero. È redattore di The Florence Review Ha un blog dove scrive di libri su Huffington Post. È stato capo redattore del litblog Poetarum Silva per otto anni; è coordinatore artistico del Festival dei matti.
____________
Fotografia di Dino Ignani.