Giancarlo Baroni, Merli del giardino di San Paolo e altri uccelli, Mobydick editore 2009. Lettura di Andrea Fallani
Giancarlo Baroni, Merli del giardino di San Paolo e altri uccelli, Mobydick editore 2009
La leggerezza dei Merli lettura di Andrea Fallani
Ciò che per prima cosa colpisce, che disorienta il lettore dei Merli del giardino di San Paolo e altri uccelli di Giancarlo Baroni, è sicuramente la mutevolezza, la leggerezza e la fluidità dell’io lirico: colui che parla, o meglio canta, a volte è un essere umano, non un poeta ma un qualsiasi individuo; altre un uccello, e raramente un volatile sui generis, al contrario, spesso si tratta di una specie ben precisa (Tarabusino, passeri, rondone e quaglia è il titolo di una delle poesie in cui sono i pennuti a parlare). Proprio questa precisione nel catalogare gli uccelli secondo un approccio scientifico, ordinatore e razionale è un’altra delle caratteristiche della raccolta. A prima vista si tratta di un’intrusione ingiustificata di un linguaggio tecnico-scientifico in un tessuto per il resto molto semplice, composto di parole d’uso quotidiano; risponde invece all’esigenza di chiamare le cose col loro vero nome, di non fare di tutta l’erba un fascio e semplificare una realtà eterogenea e variegata.Questa precisione ricorda il passo della vigna di Renzo al capitolo XXIII dei Promessi Sposi, dove Manzoni compie una minuziosa descrizione di tutte quelle varietà di piante («gramigne, di farinelli, d’avene selvatiche») che l’ignoranza dei contadini semplifica con il termine dispregiativo di «erbacce». Invece ogni erba, così come ogni volatile, e allegoricamente ogni essere umano, è diverso dall’altro, ha abitudini, gusti e comportamenti particolari che possono essere scoperti e capiti tramite l’osservazione; in un mondo che tende sempre più all’omologazione, dove diverso è sinonimo di sbagliato, la raccolta di Baroni ci spinge invece a riconsiderare la specificità come valore.
Non deve destare sorpresa la corrispondenza tra uccelli ed esseri umani, tutt’altro che inedita nella nostra storia culturale. Basti pensare a come nel Medioevo, periodo storico a cui Baroni fa spesso riferimento, come ad esempio le poesie raccolte nella sezione Federico II e i merli del giardino di San Paolo, abbondino le raffigurazioni dei padri della Chiesa come volatili, spesso anche molto comuni (passeri, usignoli, ecc). La musica prodotta dal canto degli uccelli era considerata parte, al pari del canto umano, della musica mundana, e come tale espressione dell’armonia universale, e quindi di Dio. La poesia di Baroni sembra muoversi nella direzione di una ricomposizione di questa armonia dell’universo: nonostante i mali della Storia, che spesso emergono con improvvisa violenza («Verrà rasa al suolo. / Figli e uomini sterminati / e noi donne rapite. Il sale / sparso a piene mani sulla terra / la renderà infeconda»), nonostante i pericoli che incombono sullo spirito della natura («Sono mali che spingono a pensare / e ci inquietano. Nemmeno le querce / che un tempo rivestivano / enormi la pianura padana || ne sono escluse») il dialogo, o meglio il concerto tra esseri umani e uccelli prosegue di lirica in lirica. Il poeta assume ora le vesti dell’uno ora dell’altro, incrociando sguardi, suoni e parole, risanando le ferite e i contrasti della realtà. Solo attraverso l’integrazione dei comportamenti e degli archetipi propri di ogni specie è possibile ricomporre una visione del mondo armoniosa e dar vita alla poesia:
Bisogna prendere distanza dalle cose allontanarsene. Non oltre gli uccelli né sotto agli uomini, amando invece questi quanto più si è capaci di afferrare i segreti dei primi. Parti perciò trascurando le voci che promettono di farti troppo dissimile da entrambi.
Quello della lirica Le cose appare quindi un invito a guardare il mondo e la vita con la leggerezza degli uccelli, leggerezza che non vuol dire superficialità, ma «planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore» (Italo Calvino). Si tratta più in generale del messaggio che è sotteso a tutta la raccolta, dove spesso è ravvisabile, anche per il linguaggio utilizzato, una tendenza a conciliare mondo umano e naturale.
Si tenga conto, infine, proprio per quanto riguarda il linguaggio, di una chiara ascendenza montaliana. Nel poeta genovese infatti si può notare una tendenza alla desacralizzazione, alla riduzione al quotidiano del linguaggio poetico che già emerge in Ossi di seppia (si pensi a Meriggiare pallido e assorto, nella quale compaiono per l’appunto gli «schiocchi dei merli») ma che si fa pervasiva a partire da Satura, all’indomani del dopoguerra, nel periodo della «focomelia concettuale», dell’implodere del linguaggio e degli ideali. Periodo che, intravisto da Montale, sembra adesso di un’attualità sconcertante, nella nostra realtà «liquida» (Zygmunt Bauman), in cui i valori e i confini tra giusto e sbagliato appaiono sempre più evanescenti. Da qui nasce la condizione d’esilio volontario della poesia di Baroni, che si rifugia nel giardino del Convento di San Paolo a Parma, quasi un locus amenus, un Giardino di Armida o, meglio ancora, un «pomario», a studiare gli uccelli che lì vivono e carpirne i «segreti». Nella ricerca è aiutato da una parte dal trattato di ornitologia di Federico II, che la leggenda vuole custodito dai merli del convento, dall’altra dalla riscoperta delle valenze simboliche, archetipiche di questi animali: la civetta, simbolo della conoscenza razionale, di Atena, «Non qui / l’invisibile lascia tracce immonde» (I merli del giardino conversano), non nel giardino, luogo protetto da una sorta d’incantesimo che tiene lontani tutti i predatori e i pericoli dai merli. È quindi il linguaggio poetico ad essere il tramite fra il mondo degli uomini e quello degli uccelli, tra pensiero logico e analogico, logos e mythos; è attraverso la poesia che Baroni riesce a sanare la frattura tra ideale e reale e a concepire una superiore forma d’armonia (concordia discors).
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