Inediti
La coltre perlacea di nebbia
che inganna il mio occhio
è ancora la stessa
che cuce un ricamo di nubi
alla stoffa del lago
di là dai cipressi del porto.
L’autunno è passato di qui
seminando abbandono.
Col silenzio atterrito
in cui si risveglia
la sala da ballo
nel giorno che segue la festa,
Gardone – smarrita – mi stringe,
si scopre trascorsa.
È in questo sconcerto
che freme il mio urlo di vita.
E intanto – ma è vana protesta –
un telefono squilla
dai vetri serrati
di un gelido alloggio deserto.
*
Ne ho appena bruciato le carte,
gli appunti, le note,
adesso che armato di morte
– difesa legittima, credo –
si è imposto alla vita.
Tra i fogli ho bruciato
perfino un ritaglio di bianco
su cui aveva scritto
– nell’angolo, in calce al suo vuoto –
d’incerta grafia: “Conservare”.
Quel verbo indifeso
– l’enigma di ciò che resiste
disperso nel nulla –
è nient’altro che me, è ogni uomo
che si ostina a restare e non è.
“Conservare”, ma io l’ho bruciato,
protesta d’amore.
Ora che la mia vita mi esige
e persevero in questo ritardo,
non sono un poeta,
ma ripudio l’essenza dell’uomo.
*
Eccomi, adesso tramontano
scarti di luce
tra i ruderi delle mie ciglia,
dove – scalzo – l’esilio del buio
costringe alla resa.
Di là dal confine diradano
la mia dogana
i dazi di questo dolore.
E qui, invece, accanto alle mie
attendono – chine – i tuoi occhi
le due lenti, sull’orlo del letto.
Fotografia proprietà dell’autore.