Federisco Scaramuccia, Canto del rivolgimento, Salerno, Oèdipus, 2016
nota di lettura di Gabriele Belletti
Le forme del rivolgimento: tra canto e ge-mito
Canto del rivolgimento (Salerno, Oèdipus, 2016) di Federico Scaramuccia – che fa seguito a Come una lacrima (duemila uno) (Napoli, Edizioni d’if, 2011) – prende le mosse da un’epigrafe, spiegata, insieme ad altre note, al termine della raccolta, il che già evidenzia l’attenta costruzione di un Canto che va ascoltato per tutte le quattro sezioni che lo compongono. La frase in epigrafe («Tutta la creazione geme ed è in travaglio», Lettera ai Romani, 8:22) annuncia un caos in atto, dove il tempo verbale, il presente indicativo, coglie l’urgenza della poetica che verrà di seguito, proprio mentre si sta predisponendo. In prima istanza, quindi, va detto che la raccolta è fondata su di una struttura versificatoria che aggredisce il male mostrandolo, ri-voltandolo e cantandolo in versi (Rivolgimento come ribaltamento del male [1]).
Non si mira, però, pur essendo cantato, a un suo “dire” semplificato, tutt’altro. La ricerca e la denuncia, tra simmetrie e rime puntualissime, non trascendono mai la materia che accolgono nei loro versi mirando ad una visione riconciliatrice autoriale “dall’alto”, ma ne esplorano le forme interne e ne estendono-estremizzano, smascherandola, semmai, la natura complessa. Lo si coglie già nella prima sezione, Il fiore inverso, dove, in assenza di qualsivoglia punteggiatura, una simmetria dall’asse verticale dà forma al detto «travaglio». Le poesie di questa sezione dispongono, inoltre, di un verso-sintesi che si stacca dal magma nervoso e continuo del ritmo orfano di un identificabile io. L’io del Canto pare piuttosto composto da una voce che si vuole collettiva, una sorta di noi-rapsodo che tenta di tramandare il suo dire ai suoi simili. È la voce di una creatura che, pur vivendo insieme al lettore, non meno umana di lui, rea quanto lui di prendere parte all’umano deviato, sceglie di spargersi in un noi e di spargere gabbie-trappole per il male. Esse sono composte da una struttura formale fitta e pre-parata per creare una forma di ribellione, di rivolgimento appunto, al male stesso. L’ingabbiamento dà vita così, ci pare, ad una mappatura in versi delle diversificate – ma provenienti da una stessa origine – bolge del male. Il noi, nel far ciò, non mira alla discoperta di una strada verso un’eudemonia, anzi, il suo è canto morale – mai moralistico – che si tiene in regole rigide proprio per tenere in piedi (Treppiedi, titolo della terza sezione) una poetica necessaria, senza ‘sbavature’ riconciliatorie. Se vi sono ‘sbavature’, esse sono semmai coerenti con un tale dettame morale: Il fiore inverso lo si trova proprio nella forma-significante delle poesie, dove un verso-corolla si staglia dai sei petali-versi quasi come titolo della / alla fine. Come gettato dalla poesia che lo spiega, si rivolge verso il lettore-insetto che deve ascoltare ciò che si ha da dire e che è già sotto gli occhi di tutti (Rivolgimento come rivolgersi al lettore [2]):
riverso in una duna corre schivo
e all’ingrosso un gregge in preda all’accidia da un tubo sterile a fasci miraggi
incolori irradiano orba ogni sedia cariche di cunicoli di cime
è fuori legge l’incubo lo sfascio non ci sono strapiombi né colline
nemmeno gli spari turbano i sogni rimedia il piano in sequenza che smargina
lombi in calca nel panico che il solco ritroso cadenza e corregge in rivoli
a rotoli
La seconda sezione, Mire, già dal titolo richiama le scelte stilistico-formali delle rime a specchio e, oltre a ciò, il rapporto anagrammatico tra esse, tra rime e mire, si va ad aggiungere ad altre corrispondenze e parallelismi stilistici e contenutistici («lingue di fuoco e colonne di fumo / fuoco alle lingue in fumo le colonne», p. 26). Le mire sono quelle di un canto-visione, un vangelo di formule, dove le rime a specchio, appunto, che l’accompagnano, cercano di portare a compimento un rivolgimento strutturale (Rivolgimento della struttura linguistico-formale [3]), nella forma che tenta un rivolgimento, anche nel senso di ri-voltare, ridare un volto umano al mondo (Rivolgimento come ri-voltare, ridare volto umano [4]):
sui trabocchi si impalcano altri pali
grondano torbidi sulle rovine
i battiti a malarsi dello scasso
lo sfarsi nel chiasso
torrido delle lamine
a mucchi allargano le ali
È una poesia, quella di Scaramuccia, ci pare, con occhi fissi sull’uomo e sulle responsabilità che lo hanno reso e lo rendono distante dalla sua propria natura. Nelle simmetrie, nel passo poetico cadenzato e “complesso” si manipola il male proprio per evitare che «la realtà si comprima» (p. 51), e per far sì che prenda vita il rivolgimento di un mondo che «geme in travaglio» (p. 55) e il cui ge-mito si mostra nel canto.
Nell’ultima sezione, Il tempo in lotta, la presenza umana scema, si coglie un’umanità Dafne che si vuole sottrarre all’orrore da essa stessa prodotto per farla ri-diventare natura. In questa sezione, più che nelle altre, si affaccia una possibile visione del futuro (una pars construens) dove, rientrando nella natura, l’uomo stesso è rivolto ad essa, è in essa, e, in tal modo, può riconoscere la sua casa:
possa la nostra fiamma così fresca
con calma rinnovarsi
restando alla rovescia
senza estinguersi senza consumarci
«Ciò che sembra mettere in pericolo, oggi, non la sola centralità, ma la stessa necessità dell’uomo sul nostro pianeta, è la perdita di visione e giustizia», scriveva Anna Maria Ortese in Corpo celeste (Milano, Adelphi, 1997, pp. 150-151). «Visione» e «giustizia» umana che ci paiono essere nuclei centrali della sensibilità del Canto e di tutta l’opera poetica di Scaramuccia.