Francesco Dalessandro – Inediti

Francesco Dalessandro, nato nel 1948, vive a Roma. Dopo gli esordi su rivista (in particolare, su “Le porte”, n. 2, maggio 1982, con una nota di Francesco Tentori, e su “Discorso diretto”, quaderno 5, 1983, con il poemetto Divergenze), è stato uno dei fondatori e redattori della rivista di letteratura “Arsenale”, diretta dal 1984 al 1988 da Gianfranco Palmery. Ha pubblicato i seguenti libri di poesia: I giorni dei santi di ghiaccio (con una nota di Elio Pecora – Barbablù, Siena, 1983; ); L’osservatorio(Caramanica, Marina di Minturno, 1998), finalista “premio Dario Bellezza”, V Edizione, 2000; seconda edizione, rivista e modificata, per Moretti & Vitali editori,  con una testimonianza di Attilio Bertolucci e il saggio, Il destino di ognuno, di Gianfranco Palmery; Lezioni di respiro (Il Labirinto, Roma, 2003), segnalato al “premio Attilio Bertolucci”, I Edizione, 2004 e finalista “premio Frascati”, 2004; La salvezza (Il Labirinto, Roma, 2006); Ore dorate (Il Labirinto, Roma, 2008); Aprile degli anni (Puntoacapo, Novi Ligure, 2010); Gli anni di cenere, (Associazione culturale ‛La Luna’, Sant’Elpidio a Mare, 2010, a cura di Eugenio De Signoribus), con un’incisione di Michela Sperindio, e Primo maggio nel Pineto (Stamperia d’arte Il Bulino, 2012) con disegni di Silvia Stucky; Figure d’ombra (puntoacapo, 2018, nella collana Ancilia diretta da Giancarlo Pontiggia, finalista.Premio Metauro); Dediche e imitazioni (InternoLibri, 2021, con uno scritto di Massimo Morasso). Camminando (Il Labirinto, 2023), è il suo ultimo libro. Ha inoltre curato e pubblicato otto libri di traduzioni: Wallace Stevens, Domenica mattina; Elizabeth Barrett Browning, Sonetti dal portoghese; Gerard Manley Hopkins, I sonetti terribili; George Gordon Byron, Il sogno e altri pezzi domestici; William Shakespeare, Ladro gentile (sonetti scelti da G. Tomasi di Lampedusa); John Keats, Sull’indolenza e altre odi e Fammi lezione, Musa; Isaac Rosenberg, In trincea; Eloy Sánchez Rosillo, Chiave del sogno. Altre traduzioni, su rivista: dal latino (Giovenale, Orazio, Ligdamo e Sulpicia), dall’inglese (Andrew Marvell, Kenneth Rexroth) e dallo spagnolo (José María Alvarez, Francisco Chica, Ana Rossetti, David Pujante, Pere Gimferrer). Cura il blog Poesie senza pari.

La fotografia è di Dino Ignani.

***

Alla moglie

Precipita nel vuoto il nuovo
mondo
come già il vecchio
con me relegato
qui
senza amore e stelle
in questo
gelido inverno (gelido
averno di miniere
e cave o fossi) quando
la notte
svuota le strade di parole
e di sguardi: occhi muti
nel buio di cupi
tuguri nella tenebra di atre
dimore
dove i morti sono
la solitudine dei vivi
e l’esilio, senza chi mi cinga
le spalle nude,
è lo spettro degli anni
avvenire: sono muti
anche i versi che il respiro
porge al fuoco e che dal
ciglio del precipizio
osservo nel vuoto che li accoglie

«Anche le anime sono di sasso
qui o di gelido vetro,
il respiro vi scrive affannate
parole morte…»
inizia
così l’ultima triste
lettera con la quale
speravo di pesare
la compassione di un dio
lontano e indifferente
ma che non finirò
perché sono stanco di scrivere
le mie delusioni e
aspettare notizie che so
improbabili: nessuno
risponde mai (solo tu
insistito rimorso)
e le speranze sono cenere
sparsa sui viali
che amavo e dove ancora
passeggiano amici dimentichi
di me
e a cui basta una nube
sul Palatino per tremare
e temere che il dio
che vi abita fulmini dall’alto,
mentre qui sulle sponde
nere la neve è come
il sogno
e dipinge sulla rena
dove macina la ruota
del dolore

Perché credevo
all’impensabile fiore del
tuo amore
come al mondo che perdevo
e vedevo tra i flutti
irati affondare e sparire
come il remo
strappato alle mani?

Perché credevo al ritorno?

Non era che il sogno
di te che venivi a cercarmi
come al tempo
della lontana giovinezza,
quando ancora ti porgevi
alla bocca alle dita
sapienti, era il tuo
saluto il sorriso che dal buio
voleva consolarmi
era l’immagine
viva di te
che fioriva nel sogno
e voleva che la mente
l’accogliesse
a far luce a liberarsi
sì era-
no i soffi della vana
speranza era il vento
che fischia e
frusta la notte senza volto,
quel che mi ero lasciato
alle spalle quando venne
la marea e la nave
uscì dal porto,
era come il sonno
perduto e mai più ritrovato
sì era
il danno che mi aveva
perso e su queste rive
ancora mi dona
derelizione e affanno
e fra poco la morte
era l’ombra del tempo finito
la foglia caduta e
marcita nell’acqua
era la notte chiara
o forse la notte sul mare
sereno, il silenzio
che apriva la visione
sul delta del fiume sul gelo
che lo stringeva,
era solo la tenebra
nuova dell’anima l’ora
peggiore per specchiarsi
nelle parole e piangere

ma tu non lo sapevi non avresti
potuto immaginare
il buio il silenzio l’insonnia
il vento che nega
perfino la preghiera
e spinge sabbia
e furia contro la porta
e strappa
il calendario dei giorni
che mi restano
e affastella ricordi e rimpianti
e come fosse cera
che si scioglie come fosse
nebbia quest’era pallida
svanisce
a dispetto del dio che tutto
governa e tutto esige:
anche sui versi
nevica

***

Ultima dal Ponto

Qui, dove
l’anima si profonde nel silenzio
e nell’oscurità
dove i miei versi tessono
il vento e l’acqua parola
che scorre riempie i pozzi
del tempo mentre giorno
e memoria schiariscono ai primi
timidi raggi e gli spettri
del futuro svaniscono;

qui, dove
anche l’anima si perde
e dietro dune
e derive di spuma il dolore
si fa dura sostanza se il mare
rinforza in lontananze
e voci
affannate che tardano a
giungere «l’infelicità
che provocasti e che non è
solo tua
amareggia anche noi chi dicevi
di amare» mi ha scritto
ma non c’è disperazione
o rimpianto per la mia
lontananza forse appena
un velato rimprovero che
le parole fra le quali
la coscienza dell’errore si occulta
qui giungono
sbiadite o per la presenza
perduta già morte;

qui, dove
l’anima impallidisce o sbianca
nella luce dell’alba
come il pensiero della morte
o i capelli di chi in sogno
viene silenziosa
a turbarmi e con materna
tenerezza si china su di me
ombra pallida seduta
in un buio tugurio quando sogni
premonitori e voci
sono il raccolto della sorte
scritta da chi con gesto
distratto mi ha relegato
ai confini di questo mare tenebroso
in queste terre di luce
raggelata e senza tempo;

qui, dove
l’anima inquieta accoglie
in silenzio
il corpo che invecchia e ferma
si offre al dolore del risveglio
alla vita che vivo lontano
da voi nello spazio senza luce
e vera notte dove brilla
vaga Orsa
nel vago spazio che tutti
ci contiene;

qui, Cotta, imparo a morire
e lentamente muoio
senza che altro mi resti
da dire a voi né a chi
domani crederà di riconoscermi
nei versi leggeri d’amore e
derelizione che il tempo avrà preservato

***

Il patto con me stesso

«Il patto con me stesso non è stato
mai così fragile, qui
manca tutto: la pace e
il sesso il dentifricio e le pastiglie
di salvataggio…»

il panico
del risveglio si annuncia col tuo viso
bellissimo nel sogno
col mio desiderio di averti
qui tra le braccia nel
solissimo destino del cercarti
a riva quando nuda
come Lighea tu emergi
in quest’angolo di mare
mentre io ti parlo ti dico
parole…
no non
le bellissime che ieri
avevo immaginate mentre il sonno
mi avvolgeva e ammutiva perché
non le ricordo
ma quelle possibili
in questa mattina a suo modo
perfetta – sole e mare
leggeri – per qualunque
cosa si voglia pensare
e dire, oppure non pensare
e non dire
perciò
non so dirti la speranza
ma se taccio
devo mettere in conto la tua
noia e anche fosse
soltanto indifferenza
io come potrei
sopravvivere a tanto o consolarmi
solo col tuo disagio?

Dovrei dirti parole
d’amore nuovissime e questo
non so farlo perché
non le trovo
più in me quando mi guardi
e riesco a dirle solo
quando mi manchi o non
ci sei perché solo
così so che puoi
ascoltarle con la stessa
intensità con la stessa emozione
con cui le dico
ma tu
le ascolteresti?
e se fossi innamorata potresti
perderti nel pensiero che ti pensa
o nella violenza
del mio sguardo?
io non so
se è possibile
che sia tu la metà che ho perduta
di cui dice Diotima se
l’esilio è in noi è dovunque
noi siamo
ma nella mia folle
volontà di abbandonarmi
e arrendermi a te,
a te che m’invadi con falangi
di legioni addestrate
e mi conquisti,
ora sogno di accarezzarti
e tacere ma intanto
possederti e così alimentare
il mio rogo

Amo la spiaggia e il mare
amo l’arco leggero di questo
golfo ubriaco di sole
amo la sabbia
rovente già a maggio e i rottami
che la marea conduce
ai miei piedi (o condurrà
ai piedi di qualcun
altro in un tempo che ignoro
quando tutto quest’amore
e dolore e questa furia
saranno persi nei millenni
o negli istanti più arresi del prossimo
giorno) ma non posso
amare me stesso
amare la voce che ti parla
o non ti parla
e si arrende al silenzio mentre scrive
sulla sabbia parole
che non hanno senso che non
hanno suono perché
a volte il desiderio quanto più
è forte tanto più
basta a sé stesso per una
volta o per sempre