Francesca Serragnoli legge “Passi passati” di Eliza Macadan

MACADAM

 

Eliza Macadan, Passi passati, Joker, 2016
nota di lettura di Francesca Serragnoli

 

Dividere i dolori privati, cosmici, civili, con un cutter ben affilato

Quando si legge il libro di una persona a cui si vuole bene, si potrebbe pensare che è scorretto, indecente, che la critica ha l’equilibrio di un ubriaco che canticchia fuori da un locale. Invece io credo che non bisogna darsi del lei, come in tv. Io cerco con ingordigia l’aldilà, quello che nel volto non c’è, che se n’è andato dalla voce di chi hai avuto l’occasione, la fortuna, la grazia di ascoltare. Quello che lei (che ha scritto) ha perduto per sempre. Allora il libro è una traccia, una passeggiata, un inseguimento. In alcune poesie senti l’odore di quel fuoco spento, in altre brucia qualcosa che ti fa passare una notte lì. In poche parole è un viaggio. La vita spericolata di chi, seduto, è “esattamente altrove”, titolo di una delle sezioni di questo libro. Si tratta dell’intensità orizzontale di alcuni testi e verticale di altri. Dal momento che non si può citare tutto, dico solo che “Passi passati” di Eliza Macadan ha come tema l’eternità, l’unica eternità possibile, quella ancorata al tempo. Come potrebbe essere diversamente? Qualcuno diceva che per parlare del dolore bisogna essere felici.

          ma ci pensi?
          oggi sono uscita nuda di casa
          sotto la pioggia isterica
          isterizzata dal fine ottobre
          nemmeno un anello al dito
          nessuno mi guardava
          solo foglie distratte s’incollavano
          al mio corpo nudo qua e là
          in cerca di un punto d’appoggio
          prima di sbattere sul marciapiede
          ma ci pensi?
          a nessuno interessa un corpo
          ancora giovane

Non mi interessa fare la storia dei testi, ma descrivere il punto preciso della scala in cui li ho letti. Ho parlato di eternità non perché sono religiosa e capto i segnali da Marte che convengono o sostengono una mia possibile credenza o ideologia. In questo libro c’è una poesia civile lirica, cioè una scrittura che non ama prendere posizione prima di essere scritta. Possiamo dividere i dolori, privati, cosmici, civili e con un cutter ben affilato, sfilettarli. Un uomo (una donna) può amare un altro uomo, Bucarest e l’universo (forse anche l’Italia). E rimanere se stesso. Quando si ama un uomo ci si può ricordare della morte, dell’eternità, dell’epoca, dei guai, dei parenti, del mare. Credo di avere sperimentato questo immenso naufragio, salvato dalla coscienza o incoscienza dell’eternità. Una specie, se vogliamo, di Paolo e Francesca, dannati e salvati dall’eternità. L’eternità salva anche i dannati, segreto immenso, misericordia sovrumana. Quella felicità che occorre alla nostra epoca per essere perduta, è quella di essere perduta per sempre. Che la sconfitta, qualsiasi essa sia, rimbomba per l’eternità e lì solamente potrà finire di corrompersi o ricongiungersi a una misericordia inventata dal divino che gira nei nostri cuori (la miglior invenzione dopo quella del fuoco) o dal divino vero, padre di quella forza indomabile che è il battito cardiaco e il pensiero. Civile cosa significa? Spesso si sente parlare di io che diventa noi (e viceversa?). Banalmente, qualcosa che ci unisce e conserva l’identità di ognuno, contemporaneamente. Quale sarà mai la poesia che serve il popolo, il secolo? Si parla di educazione personalizzata, adattata alle esigenze del singolo. Servendo il singolo si serve il popolo. Allora anche una poesia personale, privata, dettagliata in un quadrato di casa può cambiare il mio modo di stare al mondo, il mio modo di stare con gli altri, dal basso.

 

          conserva qualcosa anche per me
          mi dici di sera e di mattina
          quando mi trovi sputata per terra
          dal giorno o dalla notte
          con il respiro in vista
          sotto la pelle traslucida
          io conservo l’attimo esatto
          in cui le tue parole mi toccano
          regolano le mie funzioni vitali
          da te scende la vita
          mi alza alla mia stella
          conserva qualcosa anche per me
          dici
          per poterti trovare per tornare sempre a casa

 

Da rileggere. Si dovrebbe spiegare cosa significa sentirsi dire “conserva ancora qualcosa per me”? Per ora mi limito ad augurarlo. A chi non è capitato di leggere una poesia, abbracciare un foglio appoggiandolo al cuore, e pensare proprio a quello. Che le grinze del foglio siano le grinze di un viso, no, è troppo anche per me. Ma c’è qualcosa che bisogna toccare, che se è solamente la carta, è già un inizio.

 

          non so più cosa sono
          il dolore mi annega
          fino alle ossa
          il suono nell’orecchio sinistro
          l’unico che riconosco
          nella clessidra rovesciata
          frazionata nei angoli della stanza
          è un gas che ci tiene vivi
          ci mette su due piedi
          la donna appoggiata al bastone
          spaventa il mio fine giornata
          si preme sul cuore e schizza di lei
          l’ultima goccia viva
          Dio fai che ci sia ancora un po’di luce da queste
          parti
          che io possa entrare e uscire per un altro po’
          la speranza gocciola adagio sul bicchiere mezzo
          vuoto
          i libri stanno chiusi in me
          nessuno dei sogni è tondo
          ho sparpagliato il pane e il vino
          venezia affonda prima del mio arrivo
          ai margini comincia l’infinito

 

Il flusso, che sento espandersi in maniera non sempre logica, è quell’aldilà dove ti porta la poesia, a volte, senza chiedere il permesso, senza anticiparti nulla.

 

          la piazza ha preservato solo il nome
          del legislatore antico e il triangolo di cielo sopra
          nei medaglioni sui muri
          la chiesa nasconde volti di santi bruciati dal sole
          con lo sguardo basso – questa è la trinità
          che macina il mio mezzogiorno –
          cantieri chiusi all’ombra
          le finestre della casa nazionalizzata
          l’isteria della dama del primo piano
          ho tanta libertà negativa che
          ho smesso di fare qualunque cosa
          sto contando le mie scaramanzie i segni della croce
          fatti da una passante vestita di rosa
          con la testa verso la torre
          allo stesso tempo con i santi
          cerco il cielo

 

Per un momento mi sono anche dimenticata di chi è questo libro, chi ha scritto questi testi. E perché mai? Per una estrema distrazione. No, per puro egoismo. Per quella strana proprietà che si acquisisce quando si trova qualcosa lungo il cammino. Quelle cose che si trovano e si mettono in tasca, una conchiglia, un euro, un diamante. Diventa proprio rubare da una esposizione gratuita, senza allarmi, senza luci. Non è l’albero delle mele dei primi uomini e donne malvestiti. E’ il mondo di oggi e c’è anche questo.

 

          il falò incendia
          l’orizzonte rimasto a bocca aperta
          su lungomare della salute questa ragazza sa di donna
          questa madre sa di amante
          un delirio antico scompone movimenti
          passi passati
          questa danza sa di africa
          le onde si fanno ponti
          verso le origini i sessi sentono tamburi di guerra
          la fame passa al pensiero dell’altra riva
          gli zingari non mi hanno mai portata via con loro
          eccomi qui brucio in un frame del falò
          la notte balla ad occhi chiusi
          come il presente

Francesca Serragnoli