Fabio Michieli, Dire – Recensione di Umberto Piersanti
Nel teatro del mondo
“la vita che non chiesi ma divenne / consegno ora al destino che mi spetta” (p. 38).
È un particolare teatro del mondo quello che rintracciamo in Dire di Fabio Michieli (L’arcolaio editore, Forlimpopoli 2019), dove non si stagliano in primo piano luoghi, volti e vicende ma tutto questo deve essere ricercato ed intravisto dietro un sipario o un velo che lo oscura. No, non c’è la volontà di ricercare l’“oscuro” o magari di farsene schermo: questo è il reale, uno spazio esistenziale con una venatura metafisica, di una metafisica laica intendo. La vita prosegue per suo conto un cammino inesorabile e quasi completamente autonomo: il nostro è un destino al quale possiamo consegnarci ma non mutare.
Qualcosa si rivela per speculum enigmate. Sono tratti, lacerti che non si lasciano facilmente interpretare. Certo, avvertiamo qualcosa di doloroso, di sangue, magari di sacrificio. I toni sono, però, esatti e calibrati, privi di ogni turgore. No, non è certamente quella di Fabio Michieli una scrittura minimale: l’eleganza assoluta del verso rimanda a tradizioni classiche, sia greco-romane che provenzali “fu quando svelsi al ramo l’acre rosa: / mi punsi e tinsi del mio stesso sangue / quella mano: tinsi nuovo anche il volto –” (p. 26).
Presenti anche influssi contemporanei, magari non italiani, ma lo stile rimane assolutamente personale. Un verso cesellato che si gusta soprattutto se recitato a voce alta: solo in questo modo si percepisce la nobiltà del dettato.
No, non vicende dicevamo, ma istanti e percezioni. Quale idea del sacrificio o altro c’è dietro questi versi? Difficile capirlo, eppure ne avvertiamo l’intensità “al suolo avidi i petali raccolsero / del mio sangue l’orgoglio violato” (p. 26).
Parlavo di versi perfettamente cesellati, di un nitore che non nasconde il dramma o il patos: questo l’esempio più perfetto: “tingerò d’amaranto questi versi / perché tu possa scorgerli lontani / quando la luce imbruna il cielo a sera” (p. 33).
Euridice ed Orfeo, di cui hanno parlato nelle prefazioni Gianfranco Fabbri e Augusto De Molo, sono sicuramente personaggi centrali: ma no, non personaggi, figure emblematiche quasi disincarnate, ma investite di una forte carica drammatica e vitale. Non so se il narratore possa configurarsi in Euridice, se quest’ultima possa rappresentare: “la parte umana ormai immersa nell’eterno di più verità” come sostiene Gianfranco Fabbri nella prefazione di questa nuova edizione di Dire mentre la postfazione di Augusto De Molo risale alla prima edizione del 2008. Quel che emerge, in modo incontrovertibile, è la fiducia nel canto, nella eternità del canto, così come così cara a tutta una tradizione romantica e che da noi ha avuto in Ugo Foscolo il suo rappresentante più alto: “sì, voltati a guardarmi! Io ti supplico: // spegni il tuo amore incauto! eternami nel canto! / annientami, dissolvimi – esaudiscimi, annullami” (p. 43).
Naturalmente questa fiducia nella forza eterna della poesia di Fabio Michieli non vive in un Ottocento ancora sicuro dei propri valori, ancora ricco di certezze com’era per Foscolo, ma dentro un “teatro del mondo” molto più inquieto ed insicuro: e il poeta contemporaneo dovrà usare un altro tono e perfino altre parole per esaltare la capacità della poesia d’immortalare figure e vicende. Il discorso vale ancora di più per la capacità stessa della parola di dare un senso alla vita.
È molto più importante una Euridice mitizzata, figura che attraversa i secoli, d’una Euridice domestica ricondotta dall’oscurità dell’Ade alla tranquillità della sua casa, alla tranquillità di una serena e modesta vita coniugale.
Non sempre c’è questa sicurezza nei confronti della poesia; sì, è vero che la poesia è la nostra voce, ma il dubbio dell’inconsistenza permane. Il tempo che attraversiamo è un tempo brechtiano, le nuvole all’orizzonte sono ben più di nuvole e l’inconsistenza sembra dominare: “ma non son nuvole quelle che passano! // l’inconsistenza spesso ci attanaglia / di chi coi versi ingaggia la battaglia” (p. 82).
La poesia di Michieli non ha quasi mai un’impronta civile, ma ho detto quasi mai. Il dramma dei morti in mare trapela in questi versi (p. 53):
(squallidi coralli dispersi in mare
aperto come fossero le ceneri
di un qualche morto in più da aggiungere a una lista
che trova solo livida pietà)
Ancora più forte lo sgomento che domina in Quod genus hoc hominum? (Aen. i 538) (p. 80):
voi dite che sia giusto abbandonarli
lasciare al largo quei legni dal nulla
venuti per pietà nulla a perire –
suona e insiste quest’ora di rapaci
di voli a picco su vittime inermi
Prima ho parlato di luoghi, della loro assenza: non è del tutto vero: Parigi, Barcellona, Firenze sono però luoghi di avvenimenti, entrano come momenti del vivere e del sentire. Altro tema importante di Dire il dialogo col padre che non c’è più. Questa zona del libro ha un risalto particolare e si staglia con una luce e un tono diverso dal resto. Qui tutto viene avvertito dal lettore con immediatezza, qui non ci si muove più dietro un velame scuro (p. 68):
non sono stato ciò che ti aspettavi:
quel figlio, quel bastone che reggesse
il tuo corpo oltre il passo dell’età –
ma non fu per mancanza mia…
la vita!
fu lei a lasciarti prima del tuo tempo –
Luce ed ombra, vita e morte, si rincorrono ed incontrano continuamente in queste pagine sempre raccontate con una forma limpida e scandita, mai però facile o carezzevole. I versi cesellati di cui parlo non sono un orpello, non nascondono il dramma ed il dolore, ma li inquadrano dentro una cornice che li difende da ogni facile effetto pietistico o declamatorio.
E chiudo con questi versi dove la vittoria sul nero, più nero dell’inchiostro che occupa tanta parte della nostra vita, è netta per quanto fragile ed insicura: “ma la luce che filtra dalla grana / dice a me – nel silenzio – tutto il bello” (p. 55).
Umberto Piersanti
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