Fabio Franzin
da erba e aria
(anteprima editoriale del volume in uscitail 15 gennaio 2017 per Vydia editore, Collana Licenze curata da Cristina Babino )
Da alcuni decenni il nome di Fabio Franzin è ben noto ai lettori di poesia; che lo associano principalmente al tema del lavoro, della fabbrica, e a tutto il groviglio di vite e contraddizioni di quel mondo. (…) Eppure nella già vasta opera di Franzin non è affatto assente almeno un’altra armonica, che dagli interni/inferni industriali conduce verso l’auscultazione del mondo naturale, e con esso della memoria che il paesaggio evoca. (…) A questa seconda intonazione poetica appartengono i testi di erba e aria; per i quali dunque non si può certo parlare di assoluta sorpresa, ma piuttosto di paziente continuità con le proprie radici poetiche. E tuttavia (…) il lettore non può non avvertire stavolta un moto di stupore: non per i temi o l’ambientazione, dunque, né per la scelta dialettale già ampiamente sperimentata, sì invece per la leggerezza, per l’impalpabile felicità dello sguardo e dell’espressione, che si confronta con gli elementi basici del paesaggio naturale attraversato dalla storia umana: l’erba, l’acqua, l’aria, le ali, i fiori, e il dedalo di sentieri, viottoli e stradine che in quell’ambiente si inoltrano. La compresenza del passato nella contemplazione del presente esclude infatti il motivo nostalgico, il bozzetto naturale o la regressione a un pascolismo immotivato e anacronistico (…) Questa esclusione della nostalgia a favore della pienezza presente ha come conseguenza stilistica (…) una straordinaria attenzione ai più minuti aspetti fonico-timbrici, che esaltano le potenzialità del dialetto, e che sono messi al lavoro in questo libro per restituire sulla pagina la vivacità sonora e la lucentezza del paesaggio rappresentato, a cui corrisponderanno dunque, nella profondità pulsante del dettato poetico, una tessitura timbrica, una tramatura di suoni, di sillabe, di impennate ritmiche che rendono molte di queste poesie dei piccoli miracoli di equilibrio.
(dall’Introduzione di Fabio Pusterla)
*
Epùra, i ‘à paròe che ‘e sa
de erba stonfa i morti, co’
i vièn catàrne drento ‘l sòno;
‘e ghe sgorga dae man vèrte,
a fontanèa, opùra jozha dopo
jozha intant che i ne varda
fissi coi só òci de avorio;
i ne dise robe che romài no’
‘e ne interessa pì; i ‘é ripete,
sotvose, come se i fusse drio
confidarne un de chii secrèti
che i se ‘à portà co’ lori; mai
che sie un calcòssa che vèrde
‘na spièra, che cète ‘a spizha
de ‘na coriosità mai coeoràdha.
‘E paròe ‘e bate tel bianco
portal del sogno, fis.ciando
fra ‘e sbàre vèce dei cancèi
po’, cuzhoeón, come rùmoe,
i morti i se scava busi tel prà,
curidhòi che i córe sbièghi
drento ae cóine. Se sintìn
‘e palpebre pende fa scòrzhe
co’ se svejién: drento ‘l zhervèl
un bzz zheèsto; ‘e nostre man le
‘é ssute, ‘e paròe le ‘é qua e qua
‘e se scava ‘l só nido de fògo.
Eppure, hanno parole che sanno
d’erba bagnata, i morti, quando
nel sonno ci vengono a trovare;
gli escono dalle mani aperte,
a fiotti, oppure goccia dopo
goccia mentre ci guardano
fissi coi loro occhi d’avorio;
sussurrano cose che ormai non
ci interessano più; ce le ripetono,
sottovoce, come se stessero
confidandoci uno dei tanti segreti
che si sono portati nell’aldilà; raro
sia qualcosa che apra
un varco, che soddisfi
una mai sopita curiosità.
Le parole bussano al bianco
portale del sogno, sibilando
fra le sbarre arrugginite dei cancelli
poi, carponi, come talpe,
i morti scavano cunicoli nel prato,
corridoi che si snodano obliqui
dentro le colline. Sentiamo
le palpebre spesse come bucce
quando ci svegliamo: dentro la testa
un azzurro ronzio; le nostre mani
sono asciutte, le parole sono con noi e in noi
Si scavano il loro nido di fuoco.
*
sot’a jèra dea grava, fra cassie
e saézhi. Sassi coeór dea sabia,
grisi, grossi come bigne de pan
sparìsse l’aqua longo ‘e falde,
el só mistero. Resta e cresse
piante basse, fojiéte che trema,
pólvera ciara e fina come talco
tel let ssut. L’é ‘ndo’ che l’aqua
se ‘sconde che ea ne fa ‘scoltàr
‘a só vose. Tel ‘tondo dei sassi
l’opra che fa dea pièra poema.
È dove il Piave scompare
sotto la ghiaia del greto, fra salici
e acacie. Sassi beige,
grigi, grossi come pagnotte
scompare l’acqua attraverso le falde,
il suo mistero. Restano e spuntano
bassi cespugli, foglioline tremolanti,
polvere chiara, impalpabile come talco
nel letto asciutto. È dove l’acqua
si cela che echeggia
la sua voce. Nella rotondità dei sassi
l’opera che fa della pietra poema.
*
Cane cargane, ociàdhe dal treno
drio ‘l zhiglio dei binari, vizhìn
a Mestre, lance dal coeór sabia
del sech contro ‘l cel de aciaio
de zenàro, aste e penaci ninàdhi
dal vent‘vanti e indrìo, tel mazh
ossi e scóe che slusa a un rajo
de sol sbrissà fòra daa coltrìna
bisa, sufiàndo porporina te ‘sti
schèetri morti in pie come fieri
guerièri a difesa dei paeù, te ‘sti
nidi de mussàti alti drio ‘i fossàti
covèrti romài da tèra e capanóni.
Cane cargane, care tane de rane
e afa, memoria de rive e ortìghe
tii canài, de vasòti co’e bùtoe
e de tinche, marìdhoe, del crack
co’ l’amo se ‘à picà a l’amór.
Canne di bambù, intraviste dal treno
lungo il ciglio dei binari, vicino
a Mestre, lance color sabbia
d’arsura contro il cielo plumbeo
di gennaio, aste e pennacchi cullati
dal vento avanti e indietro, nel cespo
ossa e cimieri che rilucono a un raggio
di sole sbucato dalla coltre
grigia, soffiando porporina in questi
scheletri morti in piedi come fieri
guerrieri a difesa delle paludi, in questi
nidi di zanzare svettanti lungo i fossati
ormai interrati e coperti dai capannoni.
Canne di bambù, care tane di rane
e d’afa, memoria di rive e ortiche
nei canali, di vasetti di conserva coi lombrichi
e di tinche, persici sole, del crack
di quando l’amo si impigliò all’amore.
Fotografia dell’autore di Daniele Ferroni.