Esco di casa dopo aver visto lo struggente “Sorry we missed you” di Ken Loach e mi torna in mente “Corpo dea realtà – Corpo della realtà” (Puntoacapo editore) dell’ottimo Fabio Franzin, letto meno di un mese fa. Il libro, già vincitore del V premio Fortini, e il film sembrano viaggiare su binari paralleli: la precarietà esistenziale e la disgregazione dei rapporti umani, schiacciate entrambe dalle coercitive regole del mondo del lavoro. Sì, quel lavoro che logora, consuma, che sembra in grado di annullare persino la vita stessa dell’autore veneto, classe 1963, poeta-operaio come lo fu, a suo tempo, Luigi Di Ruscio, il quale per anni lavorò in una fabbrica di chiodi in Norvegia. La dura condizione lavorativa, già ampiamente trattata da Franzin nelle precedenti sillogi, come per esempio in “Fabrica” (a quando una ristampa?) assume sempre di più i connotati di un Purgatorio dove la natura umana è continuamente violata. Alla crisi economica, sociale, antropologica non si può che opporre però una sterile resistenza, per cui “Scrivere è cancellare”: al poeta rimangono soltanto le parole, le poche parole “per resistere/, per rimanere a galla nel fondale della storia.”. Paradigma di questa strenua resistenza è il testo “Partigiano della terra”, tra i più notevoli; in una vasta area in cui sorge il centro commerciale di Marcon, l’autore nota l’unica casa contadina rimasta; il “partigiano della terra” , fra mega supermarket, outlet, parcheggi e rotonde, mai arresosi al cancro della speculazione, è lì che continua a vivere la sua vita semplice, arcaica, tuttavia forse per questo più autentica. La condizione da “sopravvissuto” fa dire a Franzin, in una chiusa-manifesto pregna di umana compassione, che “mi sento fratello/ di quest’ultimo partigiano della terra”. Il mondo ideale, le aspettative, le illusioni del poeta sembrano quindi definitivamente vacillare di fronte a un mondo che a poco a poco si è rivelato impoetico, dove “scrivevo e mentre lo facevo tutto spariva/ senza quasi me ne accorgessi”, come si legge in apertura. Questo “straniamento” era ben conosciuto dai poeti vissuti negli anni Sessanta e Settanta; ben lo conosceva Pasolini, per esempio, testimone di un’Italia che a poco poco abbandonava, con profonde lacerazioni, la campagna, il lavoro agricolo, e si avviava a una fase industrializzata di crescita, di sviluppo, ma anche di alienazione, di spaesamento, di emarginazione. Oggi, nell’epoca dei post (siamo nell’epoca post-industriale, ma anche della post-verità, per intendersi), il poeta si trova di fronte gli stessi interrogativi: nel Veneto deturpato dai capannoni abbandonati, dalle statali in malora, dai centri commerciali dismessi, cosa resta a Franzin se non constatare che “quando le macchine si accendono/ nell’uomo si spegne l’anima”.
Nessuna lingua, più del dialetto veneto, sembra allora capace di entrare, chirurgicamente, nel “corpo della realtà” e raccontare questo fazzoletto di terra malamente antropizzato, dove il lavoro è “sudore che condisce pasta barilla”, dove per “un posto fisso” si buttano via vite intere. Il “Corpo della realtà” è anche, nell’ultimo testo della raccolta, il corpo deposto di un poeta con una “pietà senza aureola”, quello di un povero Cristo che stringe al petto un alfabeto tarpato, martoriato. Non poteva esserci ri-scatto, lieto fine, salvezza, d’altronde, nemmeno alla fine; vinto dai forni, dai nastri trasportatori, dai carrelli elevatori elettici, si consuma lentamente, come in una tragedia, un’altra deposizione, laica, civile, ma non per questo meno commovente.