Francesco Tomada, ???? ? ????? ?????, Scalino, 2016
note di lettura di Evelina Miteva
traduzione in italiano dell’articolo apparso sul prestigioso settimanale bulgaro “Kultura” (qui)
Sono madrelingua bulgara e ho avuto la fortuna, rara, di leggere le poesie di Francesco Tomada nella mia lingua d’origine. E anche se l’italiano è una lingua che ho frequentato in diversi modi e per diversi anni, niente può essere paragonato all’esperienza immediata che avviene tramite il proprio codice. Senza nemmeno riflettere le parole entrano nel subconscio e lì si uniscono con immagini al limite della memoria, a suoni posti al limite delle parole. Ed è così che, grazie alla riuscita traduzione di Aksinia Mihaylova ed Emilia Mirazchiyska, sono approdata in modo immediato e naturale al (e nel) mondo poetico di Francesco Tomada.
Tomada è uno scrittore parco, mai avventato – le parole escono solo quando il contenitore del cuore è in procinto di traboccare. Quando l’amore stringe alla gola e da lì, infine, sgocciolano parole singolari, parole che hanno superato l’angustia fra un “me” e un “te” o parole che -troppo cariche di energia- sono scivolate fuori nonostante la riluttanza al volerle dire. Così è: niente di quello che potrò dire esprime il sentimento che in me regna: l’emozione è una corrente sotterranea, interna e fuori da me sono traboccati soltanto grani secchi di sabbia dell’emozione soffocante.
e ogni parola che passa è la goccia
dal vaso già traboccato
e il grano di sabbia che riempie
del tempo trascorso in attesa
la parte vuota della clessidra. (“Iceberg”)
L’amore, proprio nella sua natura sfuggente, è uno dei temi principali per l’autore. L’amore non entra totalmente dentro di noi, ci dice, è qualcosa che è ben più di noi (riempirsene la carne// fino a non bastarsi più, “ti so dire solo che l’amore”). Il desiderio è lo spazio che resta fra corpo e lenzuolo (“Eyes Wide Shut”). L’amore è quello che espiriamo quando dormiamo, esili, sotto lo sguardo di chi ci ama che per pudore non ci dirà. L’amore è così fragile che anche il pronunciarlo può significare già romperlo, sentimento delicato come un quadrifoglio pressato tra le pagine di un libro (“Impercezione”).
La temperanza delle parole nel tentativo di cogliere lo sfuggente è un’altra caratteristica distintiva dello stile di Francesco Tomada. La sua scrittura è semplice ma senza essere banale; è bella senza essere esagerata. Egli stesso discute i propri silenzi e le proprie parole. Qualche volta il silenzio vince il confronto con le parole poiché questi contiene quelle che non esistono o perché, ad esempio, quale è il passato di “noi” (“Le parole che non so”)?
La riservatezza e la tensione interna del sentimento sono un tratto caratteristico e non solo dell’amore. La tristezza della perdita di una pesona amata cova e dura finché non può essere più sopportata: è allora che le parole si accolgono come globuli rossi attorno allo sconforto e lo suturano come si fa con una ferita. Ed ecco perché la voce -che è arrivata fino alla superficie, fino all’enunciare- è carica del dolore di un sentimento impronunciabile. Le parole sono il confine sfuggente tra la nostra percezione del mondo e il mondo stesso.
Per quanto lo stile di Francesco Tomada sia delicato e silenzioso, è proprio quel silenzio che a volte svela l’orrore del visto e del vissuto. La sua non è solo poesia di brama e dolore taciuto, ma di tutti quei dolori per i quali non c’è altro rimedio che lo strato esile delle parole. Se i bimbi che vivono fortunatamente in pace, giocano a far guerra, quali giochi desidereranno i bimbi che stanno crescendo in guerra? Giocano forse alla pace? E come è possibile giocare alla pace? – perché, come ben scrive Francesco, morire per finta è facile, ma vivere per finta non si può (“Il negativo e l’immagine”)?
Pensiamo poi alla ragazza bosniaca che scende al fiume e alla bellezza di entrambi – della ragazza e del fiume – che trascende la guerra ma non la scioglie (“Bihac, Bosnia”). Le guerre che sono successe non sono mai completamente passate – tra le finestre delle case distrutte si vede il vuoto, (“Il cielo in una stanza”), i capelli dei giovani uccisi sono diventati grigi senza di loro, (“sono queste le righe che cercavo per Rose”), il pane lì non cuoce mai (“Natale, un altro”). Le guerre fanno già parte dalla nostra vita quotidiana e Francesco Tomada le vede appunto nel loro non-passare. Dopo Auschwitz viene la Bosnia, dopo la Bosnia la Palestina, dopo la Palestina la Siria; la guerra brucia come un dolore che non ha mai fine e così avviene nella poesia di Tomada, che sembra ripeterci che quella (e ognuna) non è una guerra né eroica né di valori, non è quella mediatica né tanto meno quella religiosa. E’ la guerra che, semplicemente, non ha nessun senso e che getta un’ombra di assurdità anche sulla vita.
In questo mondo fragile e ferito Francesco Tomada trova però anche delle parole di consolazione. Lui definisce il suo concetto di casa – se i confini dovrebbero in realtà essere quello spazio che si sposta con te quando cammini, e si ferma lì dove ti fermi, allora la casa è l’albero che devi piantare, una volta arrivato. Perché, anche se le cose non sono al posto loro, l’importane è che noi stessi si abbia un posto nostro.
Le poesie di Tomada, delicate e forti, sono testi che arrivano al cuore della nostra emozione. Sono delle parole cariche di senso nella loro semplicità stravolgente.
Evelina Miteva