Nella vita mi è capitato di leggere due volte l’Eneide: una volta da alunna, durante gli anni universitari, e una volta da insegnante di liceo. La prima volta l’ho studiata, ma credo che solo la seconda volta, quando ho dovuto trovare la strada giusta per insegnarla, ne ho compreso realmente il cuore, il fondamento.
Forse, d’altra parte, è proprio questo a fare dell’Eneide virgiliana un indiscusso classico, non un poema epico, ma il poema epico che fissa il canone dell’antichità, impareggiabile anche per la letteratura della successiva età imperiale. “Un classico – come dice Calvino – è un libro che non ha mai finito di dire quello che ha da dire” ed è facile essere d’accordo, ritrovarsi a proprio agio in questa definizione. È un’altra, infatti, la scoperta, più intima, e per questo, più radicale e radicata, una volta rinvenuta: che, sempre per Calvino, “Il tuo classico è quello che non può esserti indifferente e che ti serve per definire te stesso in rapporto e magari in contrasto con lui”. Ecco, l’Eneide, per me, è esattamente questo: definisce un’identità. E non soltanto perché racconta le origini divine e mitiche della civiltà romana di cui è figlia l’occidente.
Prima di tutto, c’è lo strappo: Infandudum, regina iubes renovare dolorem. Uno tra gli esametri musicalmente più riusciti, recita: “regina, tu mi obblighi a rinnovare un dolore indicibile”, il ricordo di Troia che brucia, brucia a sua volta sulla bocca di Enea che si racconta. Didone, la regina fenicia, ascolta una storia che in parte già conosce (la fama precede gli eroi), beve le parole dalle labbra del troiano, e se ne innamora perdutamente. Il senso dell’avverbio è etimologico: se ne innamora fino a smarrirsi d’animo, fino a darsi la morte cadendo sull’elsa puntita, sulla spada dardania, non desiderata in dono per questo: Ensemque recludit/ Dardanium, non hos quaesitum munus in usus.
Enea, accolto da Didone nel palazzo, è per lei novus hospes, ospite straordinario, capace di far rivivere i segni dell’antica fiamma, passione amorosa, che la regina riconosce e confessa faticosamente alla sorella: Anna soror, quae me suspensam insomnia terrent! – fatebor, enim.
Da questo momento la regina, vedova ancora fedele a Sicheo, non conosce quiete, perché il volto e le parole del troiano le si sono indelebilmente impresse nel petto: harent infixi pectore vultus/ verbaque nec placidamente membris dat cura quietem. L’amore è un sentimento che la fa sentire braccata qualis coniecta cerva sagitta. Il tema della caccia amorosa poche volte nella letteratura sarà descritto con parole tanto ben accostate: Uritur infelix Dido totaque vagatur/ urbe furens, qualis coniecta cerva sagitta.
L’amore che sconvolge la regina è connotato da un lessico che attinge alla poesia elegiaca: l’amore è ferita, è insania, è frastornamento del sangue: At regina gravi iamdudum saucia cura/ vulnus alit venis et caeco carpitur igni. Un fuoco ceco e segreto la divora e forse la vista di Iulo, il figlio di Enea, cullato sulle sue ginocchia, può offrire un blando argine: appagarle gli occhi di una somiglianza: Illum absens absentem auditque videtque, /aut gremio Ascanium genitoris imagine capta/ detinet, infandum si fallere possit amorem. Ammesso che sia possibile ingannare un simile amore.
Immedesimarsi con Didone è spontaneo: è un personaggio femminile delicato e drammatico, capace di un abbandono totale alla passione e al sentimento. Per questo è facile concordare con le sue esternazioni colleriche, con il suo ingiurioso risentimento, quando si scaglia alacremente contro Enea, che ha tradito il patto (foedus), che si è stretto con lei nell’amoroso laccio, nelle nozze del letto notturno; e che ora, furtivo, l’abbandona. Enea, di contro, non esce vittorioso dal confronto con Didone: ci appare a tutti gli effetti (o perlomeno pareva a una lettura adolescente dell’episodio) colpevole e inadeguato, meritevole delle maledizioni che riceve, estraneo ad ogni possibile solidarietà.
Tuttavia, una lettura più matura e consapevole, invita a un ripensamento proprio a partire dalla diatriba tra i due: Me si fata meis paterentur ducere vitam auspiciis et sponte mea componere cura… – Se il fato mi permettesse di vivere la mia vita secondo i miei desideri e di mettere in ordine le preoccupazioni secondo la mia volontà, dice Enea, io avrei scelto altro per me.
È un passaggio di importanza assoluta, perché Enea dichiara la centralità del destino nella propria vita. Enea è chiamato a compiere un’impresa la cui rilevanza storica trascende la singolarità della sua vita, ha un compito, una missione da svolgere, e quando, umanamente, se ne dimentica, Giove glielo ricorda mandandogli in sogno Mercurio: Che fai? Dimentico del tuo destino, resti qui, in ozio, schiavo di una donna? – non illum nobis genetrix pulcherrima talem/promisit. Giove è stato chiaro, perentorio, manda a dire ad Enea: non sei stato salvato per questo.
Per cosa, allora, Enea è sfuggito alla distruzione della rocca di Priamo? A cosa è stato promesso? Mercurio lo incalza in modo serrato: se hai dimenticato, se non lo fai per la tua gloria, fallo per prestare fede alla promessa, a ciò che devi a tuo figlio. Così, nella tensione del confronto con Didone, Enea si difende solo con poche parole, perché il destino ha scelto per lui un alto compito, per realizzare il quale è necessario un sacrificio. Virgilio, infatti, ci ha già mostrato con la morte di Laocoonte che esiste uno scopo ultimo che giustifica il sacrificio del singolo, perché lo travalica.
Allora Enea, chiamato a scegliere tra ciò che desidera e ciò che è necessario, sceglierà di abbandonare Didone. Perché, come scrive lo psicanalista Massimo Recalcati in “La forza del desiderio”, la realizzazione dell’identità del singolo passa da uno strappo, dal tradimento, per arrivare alla piena adesione di quello che siamo, per diventare:
“Essere ostinati con il proprio desiderio è una buona cosa: rende la vita felice, soddisfatta. […] la vita soddisfatta è la vita che si incammina con decisione lungo la via del proprio desiderio e il desiderio esige rottura, conflitto.”
Questo è l’acme, il punto più tragico, la rinuncia più grande da cui Enea deve passare per accettare il suo compito e portalo a termine. Enea è l’eroe disposto al sacrificio e adesso è possibile assumere uno sguardo nuovo, una prospettiva ribaltata, in virtù della quale immedesimarsi in Enea, nella sua sofferta e coraggiosa presa di posizione, o meglio assunzione di responsabilità rispetto al proprio destino. Enea incarna lo sforzo che ogni adolescente deve compiere nel proprio viaggio di maturazione e affermazione: lasciarsi guidare dai moniti, dai segnali, fidarsi, per scoprire quale missione gli è stata assegnata – anche Enea inizialmente non la conosce con chiarezza – e, infine, per aderire pienamente all’uomo e alla donna che sente di essere chiamato a diventare. E per fare questo a volte occorre lo strappo, il distaccamento dalle aspettative, dal desiderio che chi ci vuole bene proietta su di noi, ma che non sono il nostro.
Per questo, l’Eneide è il poema del destino, per questo è il mio classico, quello che definisce la mia identità ed è stato necessario del tempo per capire che ero dalla parte di Enea, non di Didone.
Alla fine, credo, qualcuno chiederà, come nella parabola dei talenti, tu cosa ne hai fatto della vita? Tu cosa ne hai fatto della poesia?
Alice Serrao insegna Lettere in un Liceo della provincia di Milano. Si è laureata presso l’Università Cattolica di Milano in Lettere Moderne (2012) con la tesi Maria Luisa Spaziani e “La traversata dell’oasi” e in Filologia Moderna (2015) con la tesi Esiti dello Stilnovo nella lirica femminile contemporanea.
L’immagine è un dettaglio di “Enea, Anchise e Ascanio” del Bernini, eseguito tra il 1618 e il 1619, conservato nella Galleria Borghese a Roma: fonte