“CLAUSTROFONIA – sfarfallii – armati – sottoluce”
(Ladolfi Editore 2018)
In apertura vi è infatti un muro, e di contro la triade lessicale sfarfallii – armati- sottoluce. Dunque si evocano subito moti di risposta (della psiche e della poesia) ad ogni contrafforte eretto della disumanità. Sono moti leggeri, ma pronti a vorticare perfino con armi, e angoli d’ombra, come riflessi dello sperdimento, ma anche del sogno.
La scrittura ritorna poi a presentare, come in una coazione a ripetere, la scena del muro universale disumano, quello del cordoglio senza nome, che ripropone un tormentoso senso quotidiano di asfissia, costretto com’è ad essere ricoperto da sacchi di sabbia, dunque ricacciato continuamente nell’oblio, mai liberato. Con quali altri versi, più appropriati di questi -nel testo Poco prima, pag.44 – si potrà mai esprimere il nostro male di vivere? E vi si aggiunge, nelle pagine seguenti, una teoria ininterrotta di metafore seriali, con immagini di madri dolorose, parole che non parlano, vecchi giochi senza gioia dell’infanzia, padri anaffettivi, and so on, a colmare il fondale infinito della nostra infelicità.
Eppure un salvacondotto s’intravede, annidato nel proprio sguardo interiore e nella salvezza dello scambio amoroso sincero.
Lungo tutta la raccolta aleggia il dubbio, che è di ogni vero poeta, sulla necessità della propria parola. E insieme però si percepisce la conferma della presenza di una voce persistente e destinata, quella voce che – nominata con una formidabile espressione – viene da inferi smessi. Ma gli inferi restano, sono sempre là fissi a sfidare la potenza della creatività e dell’immaginario, le nostre residue ali umane che continueranno a volare altissime.
*
Claustrofonia
il muro tace, non risponde più
si lascia guardare angolandosi
in riproduzioni lessicali nei passi
o sfarfallii – armati – sottoluce
ogni tanto un urto di temperatura
differente, a porte chiuse ] tolte le dita
da maniglie ingoiate a sorsi uscite laterali
agglomerate al bolo circolante, contropelle
la risalita dei ricordi sfida il cemento
dell’anima in guardiola, divelta e sugosa
chiaroscuro del Merisi
stretto chicco d’uva fragola come fosse un uragano
moltiplicato a schizzi su pareti in guanti bianchi
divaricate a terra ora
“… tu aprimi al tuo fiato singultato, viola di Tchaikovsky ”
*
La stazione
mi decretai la morte il giorno di grano perpetuo
splendeva una stele sotterranea e
fu talpa farsi sorda di clausura
tremando poi – tellurica – nel raggio d’oltremondo
così tenero e malsano da penetrarvi il cuore
senza respirare trattenendo il cosmo esplodendo di piacere