Daniele Giustolisi, Se scendevi per strada, Capire edizioni 2019
Lettura di Francesco Diego Tosto
Nell’arco di un decennio trascorso a tradurre la propria vita in poesia – dalla prima raccolta Se poi dal buio uscisse la luce (Il filo, 2010) alla recente Se scendevi per strada (Capire Edizioni, 2019) Daniele Giustolisi – vincitore del premio Le Stanze del tempo 2019 / Fondazione Claudi – apre entrambi i titoli dei suoi libri con un se ipotetico a testimonianza della condizione drammatica dell’uomo viator, mai sazio di luce, alla continua ricerca di un approdo, di un varco non da descrivere o indicare ma da cercare.
I versi del poeta siciliano in questo nuovo testo, diviso in tre sezioni (Sopra i tetti di Myles-Una bologna di mille città- Mondrian hotel), appaiono più maturi e consapevoli, la loro sintassi libera, intenzionalmente frantumata, coinvolgente, e il loro afflato puro e incorrotto. «Cos’è questo filo segreto che unisce le storie?» si chiede l’autore (p.60), con la consapevolezza di una diffusa e latente tensione, che permea le pagine di un seducente diario di emozioni forti e dolorose, un alternarsi ossimorico tra il senso e l’incomprensibile, il buio e il lampo di una luce, la lotta e la resa, lo scoramento e la speranza. Si direbbe che l’animo di Giustolisi, sia pervaso da un’inquietudine lacerante e senza via di uscita, se non accrescessimo l’intensità di tale condizione di un significato più ampio e nobile, e cioè l’umano e vitale desiderio di aborrire una deludente quiete per catturare la totalità e sconfiggere il vuoto, il deserto dell’esistenza. In tale strenua e generosa fatica il privilegio della poesia viene a soccorrere con «il trucco delle parole» (p. 23) l’umana fragilità e la pena di uno «strano dolore» (p.11) che continua a mostrarsi, di un precipizio in cui «perdere il senso delle cose» (p. 17), di un «silenzio di macerie» (p.36). Per ogni individuo – incalza il giovane poeta, nonché giornalista e musicista – «quanto è terribile vedere e non poter dire» (p. 27); eppure il verso può raggiungere vette impensabili, alzarsi vibrante dal momento che «siamo per la morte ma non per il nulla/siamo fatti per restare» (p.62). E in virtù di tale persuasione, forse consolatoria ma energica e fiera, Giustolisi scruta il silenzio della sua interiorità valorizzando i possibili «lampi di meraviglia del niente in questo vagare da orfani» (p.67) e, con un invito affine alla “social catena” leopardiana, esclama con malcelata commozione: «guardiamoci attorno/vegliamo/odoriamo gli odori/stiamo vicini nel vuoto che abbuia» (p.24). Tutto intorno, infatti, non è muto ma silenzioso; spetta all’uomo «tentare il silenzio» (p.37), dargli voce, trovare il centro. I segreti non sono inaccessibili, sono «fragili come ogni bellezza» (p. 79), aspettano solo di essere violati.
L’interrogativo della raccolta rimane comunque angosciante: «Che accadrà di noi domani? » (p.48). L’uomo rimarrà immerso nella sua solitudine, «perso in questo imbarazzo dello stare al mondo» (p.37), «stramazzato e arreso dopo l’ultima carezza dei poeti» (p.27)? Forse sarà così, ma «la bellezza è qui» (p.13), proprio nella canzone triste, nella malinconia che affiora dolcemente, nella convinzione di non essere soli ma «davvero insieme/sotto questo sole d’agosto» (p.35), che sembra intorpidire ogni spontanea risorsa. Forse anche il poeta dovrà rassegnarsi a perdere «si perde sempre in poesia» (p. 36), ma avrà in ogni caso sperimentato «il sussulto del cuore (p. 60) », «la grazia di ogni dolore» (p.79), e sarà rimasto sveglio e avrà studiato fino a tardi «per non morire mai davvero» (p.72).
Su queste suggestive certezze la poesia di Daniele Giustolisi offre nel panorama poetico contemporaneo un contributo rilevante di riflessione e di scandaglio del mondo interiore, nonché una sfida ad ogni realtà esterna sorda e incolore. La sua poesia trova un fondamento ispiratore nell’elezione dello spirito, nella dimensione gnoseologica di un verseggiare inquisitorio, nonché nel suo essere fuori dai recinti asfittici dei gruppi intellettuali. I giovani poeti come lui sono nati sempre già vecchi, riescono a dire ciò che non sanno dire, pur sapendo in quanto uomini di essere del «poco niente» (p. 60); nella dialettica del vivere essi mantengono uno sguardo fanciullo e adulto, discreto e curioso, affacciati come sono alla vita in attesa di una pur minima rivelazione.