Il libro
La riedizione di Lavorare stanca di Cesare Pavese, curata da Alberto Bertoni per la collana «Interno Novecento», con nota al testo di Elena Grazioli, persegue fedelmente l’ultima volontà dell’autore, proponendo il testo così come Pavese scelse di pubblicarlo presso Einaudi, nel 1943, una volta giunta a piena maturazione una profonda modifica strutturale rispetto alla princeps, uscita per le Edizioni Solaria sette anni prima, con l’aggiunta di una trentina di liriche, il ripristino delle sei poesie censurate a suo tempo dal regime, la rimozione di alcuni altri testi e l’inserimento in appendice dei due testi di poetica, Il mestiere di poeta e A proposito di certe poesie non ancora scritte. Come evidenzia Bertoni nella lunga e approfondita introduzione al testo, «se si vuol racchiudere Lavorare stanca in una formula, la migliore rimane quella di “sperimentalismo realistico”, forgiata per le “poesie-racconto” che lo compongono da Edoardo Sanguineti, il quale le stimava proprio per la loro capacità di resistenza al “trionfo, tutto novecentesco, della poesia come lirica”».
L’autore
Cesare Pavese (1908–1950), scrittore, poeta, traduttore e critico letterario è considerato uno dei maggiori intellettuali italiani del XX secolo. Esordisce con la traduzione di Moby Dick di Herman Melville, nel 1932; due anni più tardi prende avvio la collaborazione, durata tutta una vita, con la casa editrice Einaudi, che stampa, nel 1943, l’edizione aumentata della sua prima raccolta poetica, Lavorare stanca, uscita per Solaria nel ’36. Oltre la sua attività di redattore, traduttore e americanista, pubblica romanzi e racconti: Paesi tuoi (1941), Feria d’agosto (1946), Dialoghi con Leucò (1947), La bella estate (1949) per cui riceverà il premio Strega. L’ultimo romanzo, La luna e i falò, uscirà nella primavera del ’50. Nell’agosto dello stesso anno si toglierà la vita all’albergo Roma di Torino. Usciti postumi Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, apice della sua poesia, e il diario che lo ha accompagnato dal 1935 fino alla morte, Il mestiere di vivere.
Incontro
Queste dure colline che han fatto il mio corpo
e lo scuotono a tanti ricordi, mi han schiuso il prodigio
di costei, che non sa che la vivo e non riesco a comprenderla.
L’ho incontrata, una sera: una macchia più chiara
sotto le stelle ambigue, nella foschia d’estate.
Era intorno il sentore di queste colline
più profondo dell’ombra, e d’un tratto suonò
come uscisse da queste colline, una voce più netta
e aspra insieme, una voce di tempi perduti.
Qualche volta la vedo, e mi vive dinanzi
definita, immutabile, come un ricordo.
Io non ho mai potuto afferrarla: la sua realtà
ogni volta mi sfugge e mi porta lontano.
Se sia bella, non so. Tra le donne è ben giovane:
mi sorprende, a pensarla, un ricordo remoto
dell’infanzia vissuta tra queste colline,
tanto è giovane. È come il mattino. Mi accenna negli occhi
tutti i cieli lontani di quei mattini remoti.
E ha negli occhi un proposito fermo: la luce più netta
che abbia avuto mai l’alba su queste colline.
L’ho creata dal fondo di tutte le cose
che mi sono più care, e non riesco a comprenderla.
Mania di solitudine
Mangio un poco di cena alla chiara finestra.
Nella stanza è già buio e si vede nel cielo.
A uscir fuori, le vie tranquille conducono
dopo un poco, in aperta campagna.
Mangio e guardo nel cielo – chi sa quante donne
stan mangiando a quest’ora – il mio corpo è tranquillo;
il lavoro stordisce il mio corpo e ogni donna.
Fuori, dopo la cena, verranno le stelle a toccare
sulla larga pianura la terra. Le stelle son vive,
ma non valgono queste ciliegie, che mangio da solo.
Vedo il cielo, ma so che tra i tetti di ruggine
qualche lume già brilla e che, sotto, si fanno rumori.
Un gran sorso e il mio corpo assapora la vita
delle piante e dei fiumi, e si sente staccato da tutto.
Basta un po’ di silenzio e ogni cosa si ferma
nel suo luogo reale, così com’è fermo il mio corpo.
Ogni cosa è isolata davanti ai miei sensi,
che l’accettano senza scomporsi: un brusío di silenzio.
Ogni cosa nel buio la posso sapere
come so che il mio sangue trascorre le vene.
La pianura è un gran scorrere d’acque tra l’erbe,
una cena di tutte le cose. Ogni pianta e ogni sasso
vive immobile. Ascolto i miei cibi nutrirmi le vene
di ogni cosa che vive su questa pianura.
Non importa la notte. Il quadrato di cielo
mi sussurra di tutti i fragori, e una stella minuta
si dibatte nel vuoto, lontana dai cibi,
dalle case, diversa. Non basta a se stessa,
e ha bisogno di troppe compagne. Qui al buio, da solo,
il mio corpo è tranquillo e si sente padrone.
Ritratto d’autore
(a Leone)
La finestra che guarda il selciato sprofonda
sempre vuota. L’azzurro d’estate, sul capo,
pare invece più fermo e vi spunta una nuvola.
Qui non spunta nessuno. E noi siamo seduti per terra.
Il collega – che puzza – seduto con me
sulla pubblica strada, senza muovere il corpo
s’è levato i calzoni. Io mi levo la maglia.
Sulla pietra fa un gelo e il collega lo gode
più di me che lo guardo, ma non passa nessuno.
La finestra di botto contiene una donna
color chiaro. Magari ha sentito quel puzzo
e ci guarda. Il collega è già in piedi che fissa.
Ha una barba, il collega, dalle gambe alla faccia,
che gli scusa i calzoni e germoglia tra i buchi
della maglia. È una barba che basta da sola.
Il collega è saltato per quella finestra,
dentro il buio, e la donna è scomparsa. Mi scappano gli occhi
alla striscia del cielo bel solido, nudo anche lui.
Io non puzzo perché non ho barba. Mi gela, la pietra,
questa mia schiena nuda che piace alle donne
perché è liscia: che cosa non piace alle donne?
Ma non passano donne. Passa invece la cagna
inseguita da un cane che ha preso la pioggia
tanto puzza. La nuvola liscia, nel cielo,
guarda immobile: pare un ammasso di foglie.
Il collega ha trovato la cena stavolta.
Trattan bene, le donne, chi è nudo. Compare
finalmente alla svolta un gorbetta che fuma.
Ha le gambe d’anguilla anche lui, testa riccia,
pelle dura: le donne vorranno spogliarlo
un bel giorno e annusare se puzza di buono.
Quando è qui, stendo un piede. Va subito in terra
e gli chiedo una cicca. Fumiamo in silenzio.