Carol Ann Duffy, “Elegie” (Crocetti Editore, 2025)

Nota di Silvia Patrizio

 

A volte il mondo dei morti si mescola con quello dei vivi.

The Others, Alejandro Amenábar, 2001

 

 

 

«Se la poesia potesse davvero dirlo al contrario, comincerebbe / da quando la granata ti ha falciato nel fetido fango… / ma ti alzeresti, sorpreso, guardando l’orrido sangue sparso / risalire dalla melma alle ferite».

È così che, in un brevissimo dettaglio colto in reverse motion da un occhio disincantato, si racchiude la complessa concezione del tempo che caratterizza la poetica di Carol Ann Duffy.

Come chiariscono Floriana Marinzuli e Bernardino Nera, traduttori e curatori dell’edizione italiana delle Elegie [Crocetti Editore, 2025], l’autrice dipana una «rappresentazione del tempo che, da lineare e inarrestabile, può andare a ritroso attraverso ricordi che come istantanee si incasellano in una narrazione nostalgica».

 

Nel mondo poetico di Carol Ann Duffy il verso diviene il dispositivo capace di far collassare lo spazio-tempo capovolgendo la percezione della distanza tra realtà terrena ed ultraterrena come se il riavvolgimento visibile della ‘pellicola’ poetica potesse riallacciare il mondo dei vivi al mondo dei morti «unendo il nulla di prima / al nulla che attende».

 

Nell’atto di scompaginare passato e futuro anche la morte e la vita divengono due facce di un’unica medaglia, intrecciate in modo indissolubile nel dipanarsi inarrestabile del tempo: «la Storia era avanti a loro». L’universo capovolto è tenuto insieme dal collante della memoria, ma anche dallo sguardo del poeta capace di registrate l’esperienza umana in tutte le sue sfaccettate dimensioni, soprattutto quelle nascoste alla percezione sensoriale.

 

Lo stesso dato biografico si trasfigura nella continuità temporale tra passato, presente e futuro, come se la biografia individuale potesse distendersi oltre i confini imposti dall’esperienza: «Concedimi una biografia / al di là di queste semplici date».

 

Se ἐλεγεία è termine che allude al ‘lamento’ – e più precisamente al ‘lamento funebre’ – e il tono elegiaco indirizza il testo nella traiettoria dello sfogo sentimentale, nei versi dell’autrice è come se a prevalere fosse il senso di riparazione dato dalla possibilità, che il verso incarna, di farsi ponte e tramite tra i mondi.

 

E’ la parola stessa a rifrangere caleidoscopicamente distanze temporali che, con il solo appoggio di una rima, rimbalzano nel tempo presente mescolandosi a suoni, odori, colori, gesti, volti, e generando emozioni che corrono, a loro volta, in reverse motion, «Ci siamo abbracciati, eravamo in un lungo corridoio / che ospitava un dolore feroce che nessuno di noi ancora / provava». E poco prima: «Stamattina non sei incurabile, non ancora, puoi camminare / con dentro la malattia, al suo centro / la tua piccola perla di speranza».

 

L’attenzione al dettaglio, capace di trasformare la luna in «una nuda lapide senza parole», diviene

pretesto per uno scivolamento dello spazio tempo ma anche, paradossalmente, per una sempre irraggiungibile definizione di sé: «Sono una preghiera non esaudita, come la poesia».

 

Mi hanno sempre vista come una figura tremolante
su un vecchio schermo. Non reale. Le mie mani,
ancora bagnate, germogliano mollette». Sento le mele bruciare
mentre stendo il bucato.
Mammina, chiamano le vocine dei fantasmi
dei bambini al telefono. Mammina.

 

Nello schermo della pagina, nulla appare irreversibile, tutto si riadatta all’emozione poetica presente: «Morti per sempre. Di’ queste parole e lascia che il significato / ti stordisca come il profumo di innumerevoli petali».

La ciclicità del tempo è la stessa che trasforma la natura attraverso l’alternarsi delle stagioni, metafora del più definitivo ciclo tra vita e morte. Prendendo a prestito, ancora una volta, le parole di Floriana Marinzuli e Bernardino Nera, «la poesia, il linguaggio, si fanno resurrezione, la morte della madre […] non cede spazio al dolore e al lutto ma è il punto di partenza da cui si riavvolge il nastro della vita felice di madre e figlia in un ravvivarsi di colori, sensi e stagioni e in cui l’elemento della natura partecipa a questa graduale rinascita».

 

Come se, direbbe Nietzsche, «L’eterna clessidra dell’esistenza» venisse «sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello di polvere! […]  Ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione – e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso». [Nietzsche, La gaia scienza, Libro IV, n. 341].

 

Da qui, forse, scaturisce l’urgenza indefettibile del dire poetico: «Prima che ti venga turata la bocca per sempre, / di’ quel che è».

 

E da qui, forse, una, per quanto provvisoria, conclusione a margine: «Se la poesia potesse davvero dirlo al contrario, / allora lo farebbe» ancora, e ancora, e ancora…

 

 

 

 

Silvia Patrizio

 

 

 

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Chiunque lei fosse

 

Mi hanno sempre vista come una figura tremolante
su un vecchio schermo. Non reale. Le mie mani,
ancora bagnate, germogliano mollette. Sento le mele
bruciare mentre stendo il bucato.
Mammina, chiamano le vocine dei fantasmi
dei bambini al telefono. Mammina.

 

Una sfilza di bamboline di carta, pulire ferite
o bollire uova per i soldati. Il canto
ripetuto di parole magiche. Non lo so.
Chissà, domani. Se facciamo i bravi.
Il film si è incantato. Sei donne sciocche
strappate a metà dalle mani di bimbi. Quando
pensano a me, mi curvo su di loro per il bacio
della buona notte. Profumo. Fruscio di seta. Dormite bene.

 

Dove fa male? Il frammento di un’eco rimane
appeso a un cespuglio di rovi. Il mio nome da ragazza
suona male. Questa era la stanza dei giochi.
La metto a soqquadro in una lingua contorta. Di nuovo.
Ecco le fotografie. Creare maschere
dalle rape a lume di candela. Casomai venissero.

 

Chiunque lei fosse, i grandi occhi la osservano di continuo
mentre traccia una chiesa e il campanile nell’aria.
Non può essere me eppure ho una scatola
di doni impolverati che conferma che è stata qui.
Ricordi le piccole cose. Raccontare storie
o far finta di essere forte. Mammina non sbaglia mai.
Apri gli occhi senza vita per guardare nello specchio
che ti stanno reggendo davanti alla bocca.

 

1985

 

 

 

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Lettere dai morti

 

 

Un femore integro riluce sottoterra. Ricordo
un lieve dolore e poi un secolo di polvere. Celebra il mio anniversario,
posa violette purpuree con delicatezza davanti all’urna. È doveroso.
Nessuno riesce a sentire il cuore imputridirsi, il tamburellare
del sangue e le percussioni dell’amore. Forse, ormai,
la tua tristezza si sarà attenuata. A meno che non ti ricordi ancora di me.

 

Ho librato in volo nell’aria grigia piccioni argento con messaggi segreti
per gli uomini che non ho conosciuto. Parlano mai di me
al lavoro e si è pianto al crematorio?
Cara moglie, caro figlio, spero lasciate la mia stanza
così com’era. La pipa, la radio e, naturalmente,
le foto del cricket. Si dice che riposiamo in pace.

 

Cenere o terra. Sparsa o lentamente infestata dai vermi. Giaccio
sopra i miei genitori nel lotto di famiglia e sono sistemato per bene
dentro una bara di metallo in beneamata memoria di me stesso.
Si spartirono le sue vesti tirandole a sorte.1 Una cassa di birra scura.
Chiacchiere e sandwich al salmone. Assicuratori.

 

Ma qui non si riesce a pensare. La laringe imita
gli scheletri delle foglie. Le parole strisciano impercettibili e sorde
sul suolo. Amore caro, ricordati di me. Concedimi una biografia
al di là di queste semplici date. Erano questi i salmi e le limousine a nolo?
Tutto questo in eterno prima del mio ultimo respiro e che tu possa,
prima o poi, trovarti come mi trovo io qui.

 

1985

 

[1 Riferimento al Vangelo secondo Matteo: 27:35 N.d.T]

 

 

 

*

 

 

Il silenzio

 

In tutti i miei sogni, dinanzi alla mia vista impotente,
mi si getta addosso, grondante, annaspa, senza respiro.2

 

 

Se la poesia potesse davvero dirlo al contrario, comincerebbe
da quando la granata ti ha falciato nel fetido fango…
ma ti alzeresti, sorpreso, guardando l’orrido sangue sparso
risalire dalla melma alle ferite;
vedresti file e file di ragazzi britannici al replay
tornare alle trincee, baciare le foto di casa –
madri, amori, sorelle, fratelli più piccoli
senza entrare nella storia, ora
per morire, morire, morire.
Dulce – No – Decorum – No – Pro patria mori.
Ti allontaneresti.

 

Ti allontaneresti, gettando il fucile (baionetta in canna)
così come tutti gli altri commilitoni –
Harry, Tommy, Wilfred, Edward, Bert –
e ti accenderesti una sigaretta.
C’è del caffè in piazza,
pane caldo francese
e tutte quelle migliaia di morti
a scrollarsi il fango secco dai capelli
e, in fila, verso casa. Di nuovo vivi
un ragazzo canterebbe Tipperary alla folla, liberata
dalla Storia; cavalli lucenti e robusti degni di eroi e di re.

 

Ti appoggeresti a un muro,
i tuoi milioni di vite ancora possibili
e stracolme d’amore, lavoro, bambini, talento, birra
inglese, buon cibo.
Vedresti il poeta metter via il taccuino e sorridere.

Se la poesia potesse davvero dirlo al contrario,
allora lo farebbe.

 

2011

 

 

[2 Riferimento alla terza strofa della poesia Dulce et Decorum Est di Wilfred Owen (1893-1918).]

 

 

 

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Carol Ann Duffy nasce a Glasgow nel 1955. Il suo interesse per la poesia si manifesta precocemente, ma è la città di Liverpool, nella quale si trasferisce per studiare filosofia, che le fa da scuola di formazione artistica. A Liverpool, infatti, Duffy trova un ambiente ricco di stimoli e fervido di energie culturali e una scena poetica molto vivace. Adrian Henri, poeta e artista eclettico, la introduce alle arti visive. Anni dopo, il riferimento alle avanguardie letterarie si traduce nella scrittura di Duffy nell’adozione di un metodo narrativo che accosta la contemporaneità al mito. Nel 1985 Duffy pubblica la prima raccolta poetica, Standing Female Nude, accolta positivamente dalla critica. I volumi che escono negli anni successivi le valgono importanti riconoscimenti, tra cui il Dylan Thomas Award, il T.S. Eliot Prize, il Costa Book Award e il PEN Pinter Prize. Nel 2009 Carol Ann Duffy è nominata Poet Laureate del Regno Unito: è la prima volta dalla sua istituzione, nel 1668, che la carica di Poet Laureate è conferita a una donna. Carol Ann Duffy ha curato numerose antologie, ha scritto testi per il teatro e libri per bambini e ha collaborato con la compositrice Eliana Tomkins in una serie di recital jazz.

 

 

Silvia Patrizio nasce a Pavia nel 1981. Dopo il liceo classico si laurea in filosofia, specializzandosi successivamente in filosofie del subcontinente indiano e lingua sanscrita. ‘Smentire il bianco’ (Arcipelagoitaca, 2023), la sua prima raccolta poetica, con prefazione di Andrea De Alberti e postfazione di Davide Ferrari, vince la III edizione del premio nazionale Versante ripido (2024) e il primo premio assoluto alla XVI edizione del premio nazionale Sygla – Chiaramonte Gulfi (2024), classificandosi anche al primo posto nella sezione poesia edita del medesimo premio. La silloge ha ricevuto, inoltre, una segnalazione ai premi nazionali Lorenzo Montano 2023 e Bologna in Lettere 2023 ed è risultata tra i finalisti del premio Pagliarani 2024. Suoi testi compaiono su diversi lit-blog e riviste, sia cartacee che online, tra cui L’anello critico 2023 (Capire Edizioni, 2024); Metaphorica – Semestrale di poesia (Edizioni Efesto, 2024); GradivaInternational Journal of Italian Poetry (Olschki Edizioni, 2023); Officina Poesia Nuovi Argomenti (2023); Inverso – Giornale di poesia (2023); Universo PoesiaStrisciarossa (2023). Fa parte della redazione della rivista Atelier Online.
Tutte le sue passioni stanno nei dintorni della poesia.

 

 

 

 

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© Fotografia di Dino Ignani.