Bruno Bartoletti, I volti non hanno più nome, Borgomanero, Ladolfi Editore, 2017
I VOLTI NON HANNO PIU’ NOME
lettura di Clery Celeste
“Ritrovare i giorni o risalire… ritornare per capire” sono i primi versi che si incontrano aprendo il libro di Bruno Bartoletti “I volti non hanno più nome”, edito da Ladolfi editore 2017. E sono parole decisive che ci indicano subito quale sarà il percorso, o meglio il viaggio in questo libro, un viaggio personale del poeta che si apre però a chiunque si accosta a questi testi. La poesia per Bruno è sempre stata, fin da bambino, il simbolo della possibilità della catarsi, della conoscenza più profonda e della verità. I volti non hanno più nome è un libro che pare una resa dei conti, il bilancio di una vita, di volti che restano nonostante i nomi e i suoni si perdano nella memoria. Questo non è un libro che può aver scritto chiunque: i testi sono precisi e con forti richiami autobiografici, che solo se sono stati vissuti intensamente possono essere narrati e quindi trasmessi con forza al lettore. Nonostante questo, che potrebbe sembrare uno scoglio nella lettura, i versi si muovono fluidi nel corso delle pagine, si entra dentro a quei nodi della vita che appartengono a tutti: al significato che assume il tempo nella dimensione dell’attesa, di una attesa verso l’abisso, l’oltre e l’aldilà.
Ecco quindi che “ritrovare, ritornare, risalire” diventano le parole chiavi di questo viaggio, dove si ripercorrono le stazioni della via crucis della propria vita, dalla perdita del padre Romeo, quando ancora l’autore era bambino, al ricordo della madre sempre con gli occhi alla finestra in attesa del ritorno, agli amici partiti, a quei volti che rimangono stampati nella testa e che rotolano via negli anni. Quello di Bartoletti è un libro che va oltre la dimensione anagrafica dell’età, del tempo circoscritto della propria vita. L’autore riesce a tradurre temi inafferrabili come quello dell’assoluto, dell’aldilà, dell’intoccabile scorrere del tempo in una dimensione che ha tutte le forme del quotidiano, che si può prendere tra le mani, toccare, si può odorare; ecco quindi che la dimensione esistenziale si concretizza in una dimensione quotidiana e minimale, quasi agricola “ Allora dove sarò? / sarò forse l’altro figlio,/ un po’ cambiato,/ quello perduto in cerca di una via,/ su una perenne strada,/ sarò come la pula della spiga/ battuta sopra l’aia.”
E la terra, il sacro suolo, ha una importanza fondamentale nella cura del dolore della perdita, come nella poesia dedicata alla madre “e sulle labbra salirà odore di terra,/ ma dietro queste ombrose mani/ saremo per sempre, tu ed io, risorti.” I volti non hanno più nome è un libro di memoria, dove si imprimono orme nel suolo della carta, ma è anche un libro di ringraziamento. Un ringraziamento, una resa che è possibile solo attraverso la conoscenza profonda del dolore e della sua razionalizzazione, processo di catarsi che è specialmente tipico dello scrivere poesia. Dove si passa da una dimensione viscerale e toracica, pulsante a una dimensione raziocinante, lineare. Per cui Bruno ringrazia del dolore, delle perdite ma per quello che gli è stato concesso, per chi gli è stato vicino, che sia per poco o per tutta la vita, come nella poesia dedicata alla moglie Piera “Se fosse già domani la partenza”, veramente commovente, un amore che va oltre “anche nell’aldilà ti cercherei” I volti di questo libro io non li conosco, non so che occhi avevano, quale inclinazione delle rughe, ma ci metto i miei di volti cari, quelli che vedo quando chiudo i miei di occhi, e che vorrei davanti a me nelle ore della mancanza.
Clery Celeste (Forlì, 1991). Diplomata al liceo classico, ha frequentato il corso di tecniche di radiologia medica per immagini e radioterapia (Università di Bologna). Ha pubblicato alcuni testi sulla rivista «Confini» (n. 31, Società Editrice Il Ponte Vecchio 2009), «Le voci della luna» (2011). Del 2014 è la raccolta La traccia delle vene (Collana Pordenonelegge, LietoColle).