Bolle di sapone – Edoardo Sant’Elia – Bolla 2
“Zebù bambino” di Davide Cortese
Bolla 2. Davide Cortese, Zebù bambino, Terra d’ulivi edizioni
Ha tutte le caratteristiche di un personaggio in piena regola, con le sue preferenze, i suoi sbalzi d’umore, le sue certezze, le sue paure, la sua voglia incontenibile di andare fino in fondo, a qualsiasi costo. E tuttavia non è facilmente inquadrabile, malgrado gli indizi disseminati ovunque. Parliamo di Zebù, anzi di Zebù bambino, protagonista di un agile e godibile libretto a firma di Davide Cortese, un libretto tanto trasparente nel suo dettato quanto, al fondo, elusivo e spiazzante.
Si procede per stanze brevi, di quattro, otto, dieci versi, con ampio uso di rime, ciascuna stanza racchiude un episodio, ma anche un solo gesto, concreto o immaginifico, un gesto che diviene pensiero nel suo farsi, un gesto o più gesti che nella loro plateale evidenza svelano intenzioni definitive, segrete: “Accende mille fiammiferi nella notte. / Si brucia il ciuffo e le scarpe rotte. / Brucia un nome scritto su una nave. / Brucia la porta per far cadere la chiave”. È un demone bambino, Zebù, che in una sorta di Palestina arcaica, lasciata intuire più che descritta, vive una vita, anzi un’infanzia parallela a quella di Gesù, parallela ma scolpita al rovescio perché le sue azioni, esemplari a loro modo, sono ben altre: “Incendia la torta del suo compleanno / chiude gli amici nel vecchio capanno. / Scarta da solo i regali avuti. / Brucia il capanno e tanti saluti”.
Si esprime in tutti i modi, Zebù, la sua vitalità non conosce limiti, i suoi desideri – “Vuole la giostra con un solo cavallo. / Vuole un sole che non sia giallo” – sono impossibili e tuttavia concepibili, sono figurazioni che lasciano il segno, che scalfiscono un immaginario troppo tranquillo, troppo compiaciuto delle sue abusate metafore. Zebù è un ribelle senza ideologia e sostanzialmente senza vanità – sa di avere sul dorso “ali nere d’angelo randagio”? –, un ribelle che non si nega nulla, che insulta i compagni di gioco, che fa lo sgambetto a Gesù, che sottrae i soldi al padre per recarsi al circo. Ma poi non esita a sbirciare dalla serratura i genitori di Gesù che intrecciano i loro corpi e “Quando in petto lo strugge / un arcano bisogno d’amore / va a rubare all’emporio del gobbo / un lecca lecca a forma di cuore”.
È un bambino ingordo, Zebù, che non sa come placarsi. La sua Palestina, immersa nell’ombra ma attraversata da squarci improvvisi di luce, è fittizia quanto la Toscana rurale che fa da sfondo alle avventure di Pinocchio; eppure è vera, è autentica nella sua accezione fiabesca. Zebù non vive di riflesso, non è un doppio malvagio ignorato dalla Storia, non funge da semplice controcanto delle gesta edificanti dell’altro. È un personaggio, dicevamo, non inquadrabile, che vive di nascosto i suoi momenti di malinconia, che nella solitudine si incarognisce ulteriormente ma contro sé stesso, che alla paura del silenzio oppone le sue lacrime di zolfo, “gocce che sfrigolano / cadendo giù”.
Di tanto in tanto, “chi sei chi sei?” gli chiedono; e lui tace. Descrivendolo dall’esterno, rifiutandosi di scendere nelle sacche troppo facili, troppo comode dell’intimismo, Davide Cortese lo dipinge volta a volta in pochi tratti, poche linee che possiamo eventualmente congiungere, come nei giochi enigmistici. E così le stanze diventano paradossali proverbi, filastrocche impertinenti che si sciolgono sul pentagramma ininterrotto del ritmo. Un pentagramma, una musica, restando al paragone pinocchiesco, comunque destinate a cessare perché “Diventerà un bel giovane / il piccolo Zebù. / Presto farà breccia / nel cuore di Gesù”. E allora: ogni burattino si trasformerà in ragazzo? Basta crescere per maturare?
Edoardo Sant’Elia