Bolla 1. Eleonora Rimolo, Prossimo e remoto, peQuod
È ragionevole o irragionevole, pensoso o furioso il mondo messo in pagina da Eleonora Rimolo? Perché tra le crepe che si allargano di poesia in poesia, che coinvolgono gli affetti, gli oggetti, le sensazioni palpabili e quelle inesprimibili, tra le faglie spirituali che divengono voragini e poi improvvisamente si restringono rimanendo tuttavia minacciose, appaiono anche momenti di riflessione, squarci di serenità, prolungati attimi di intensa, quasi commossa stupefazione.
Nella sua postfazione Milo De Angelis mette l’accento sull’Alterazione che vibra di continuo in queste pagine, innervando i versi di una forza primigenia; ma nelle pieghe di quel che sembra un continuo divenire, tumultuante, sconnesso, non mancano sguardi capaci di inchiodare la realtà con estrema fermezza, nei suoi visibili e invisibili contorni, e senza negarsi una punta di umana nostalgia: “Sempre in qualunque luogo stia qualunque persona / da ogni lato si lascia sempre un tutto infinito: / vorrei toccare Vera con la punta delle dita, / rimettere in piedi Umberto con un abbraccio, / dire a Nilde che il dolore è solo un lampo”. Intendiamoci: la dimensione dell’incubo è comunque prevalente, l’oscurità – tanto fitta quanto ambigua – si affaccia e si riaffaccia, stende le sue ali ovunque, “… servono / anni di orrore e di ricostruzione, carezze / e riposo per assorbire il trauma…” e le stesse autoraffigurazioni, per nulla indulgenti, prevedono il buio: “sono un piccolo rettile senza fantasia / capace soltanto di un graffio leggero, / impercettibile solco dove non entra / colore, da cui non scappa la serpe”. Ma poi ci sono, intermittenti, reiterate, urgenti, le domande: “Lo sai che stai donando? Lo sai?”.
Domande contenute in un ricamo testuale dove il responso è demandato agli elementi: “Conto le tue imperfezioni sulla riva / di questo stagno inospitale, chiedo / all’imprecisa retta dell’orizzonte / se sia giusto essere stanchi / di quel che si ha o si ama, / se è meglio tenere la tristezza per sé / perché nessuno ha mosso / le acque…”. Domande alcune volte implicite nell’immagine stessa che affiora, che dirime un enigma mai posto, un dubbio sottotraccia: “Così sono questi pensieri / che adesso spogliano solo il tuo silenzio / mentre parte un altro treno e tu sei / dentro chissà quale città dolente / senza sorriso, la testa bassa, piegata / annerita dal fumo”.
E comunque non si rassegna la poetessa, non ci sta. Pur senza dismettere il proprio tellurico approccio, che tutto disloca e trasforma, imperterrita continua “…a gridare oltre le cime dei tetti famiglia, legno, sogno”. Giunta alla sua terza prova, Eleonora Rimolo compie qui un ulteriore scatto di maturità proprio riconoscendo che “…non c’è più fretta, respirano / larghe le mura ci invitano alla vita, all’aprire solo / un ultima volta le valige…”. Un invito, un’apertura anche metafisica, che oltre “le geometrie abbandonate dei palazzi” guarda su, verso il cielo, come in Plutone, dove il ridimensionamento, malgrado “rabbia e sacrificio”, passa attraverso il paragone con “…sfere / minuscole, protopianeti in cui non / si scioglie il ghiaccio e non c’è sole”, e più avanti si compie, si placa nella metafora: “…siamo montagne / millenarie con le vette di carta su cui / lasci un segno a matita”.
Già. Ma quel segno, scavato non nella sabbia, assume altro significato se diviene “…il mio breve / messaggio di congedo, la sola parola che conta”.
Edoardo Sant’Elia