Andrea Bianchetti (1984) è poeta e drammaturgo. Collabora con la rivista di letteratura e critica Cenobio. Ha pubblicato Sparami amore di cera (Lugano, Alla Chiara Fonte, 2007) e Estreme visioni di bianco (ibid., 2012) oltre a una serie di testi per riviste ed antologie. Del 2013 è il testo Carneficine (Locarno, ANAedizioni) adattato e messo in scena da Ledwina Costantini per OperaretablO e incluso nella rosa degli spettacoli preselezionati per il premio del 1° Incontro svizzero dei teatri – 2014. Lo spettacolo -dopo una premiere al Teatro Sociale di Bellinzona nell’Ottobre 2013 – ha poi vissuto una una intensa tournée. Il lungo testo qui proposto è un poemetto per più quadri.
Andrea Bianchetti
da Larghissimo per cane nero (strani equivoci dal paese di S.)
(inediti)
Ian McEwan, Cani neri
Io mi misi a quattro zampe
e abbaiai:
Bau! Bau! Bau!
Vladimir Majakovskij, Ecco come sono diventato cane
*
Un cane nero s’aggirava attorno al pozzo.
Il poeta, che non era un esperto di cani,
l’aveva lasciato libero di andarsene per conto suo.
Mentre si accendeva una sigaretta
un cormorano di Pallas colò a picco
nella bruma mattutina
afferrò il cane per il collo
e se lo portò chissà dove.
*
Il poeta aveva portato il cane accanto alla pozza,
vicino al grande albergo dove una volta aveva
alloggiato una cantante famosa che mangiava solo
uova sode perché aveva paura di ammalarsi;
(dicevano che aveva interpretato Papagena
nel Flauto magico: un’amazzone di Martinica).
In quella pozza, scura e ombrosa, come certe acque
che non si riescono a dire, il cane nero si tuffò
mordendo un tubo (lo stupido)
che si scoprì qualche istante dopo essere
un cavo dell’elettricità emerso per errore.
Il corpo rigido della bestia galleggiava.
Il poeta, che sapeva quanto Lei tenesse a quel cane,
si tolse la camicia nera, si accese una sigaretta, e
si gettò in acqua. Probabilmente prese anche lui
la scossa, perché quando lo tirarono fuori,
con quegli argani con i quali spostano il legname
marcio, non si muoveva più.
Stringeva però ancora il cane nero,
o forse era il suo petto, che, molle,
si era disfatto tra le sue stesse braccia.
*
Il poeta aveva portato il cane nero
al ristorante, con sé.
Lei lavorava silenziosa nella mansarda.
Il poeta aspettava le pizze alla mozzarella non cotta
contando i bottoni del vestito stretto
della bella cameriera.
Lei, intanto, iniziava a sudare
e ad inumidire la camicetta
che diveniva color delle piume
dei solitari di Rodriguez,
quando sono in calore.
Il cane si era messo giù,
dormicchiava fragorosamente.
Il cuoco doveva averlo attratto
in qualche maniera infingarda,
perché quando il poeta tornò dentro
(le pizze erano pronte),
il cane nero era scomparso.
Quella sera servirono coniglio al ristorante.
Uno strano coniglio
che sapeva un po’ di sillabe
e un po’ di mansarda.
*
Il poeta passeggiava tranquillo
vicino alle pozze dei bambini.
Si era seduto fumando e guardando
un piccolo fanciullino
con gambe da forbicina di Sant’Elena,
rosee e croccanti.
Il cane nero era felice e saltava avanti e indietro.
Il poeta aveva paura che si allontanasse troppo:
sapeva quanto Lei tenesse a quel cane.
Lo chiamò. Ma non lo vedeva più.
Gli altri ragazzetti sapevano
che il poeta aveva un debole
per i bambini piccoli.
L’avevano così distratto
per prendere il cane e dargli fuoco,
per vedere come piangevano i cani neri.
Andarono dietro il capanno degli attrezzi,
dove il custode delle pozze aveva seppellito
le sue colpe.
Con le fiamme le colpe implosero
e con un sordo botto a forma di orecchio
fusero insieme
bambini, cani, colpe e poeti:
una nuova umanità
che avrebbe fondato un nuovo mondo,
più giusto,
più spaventoso, più umano.
*
Il cane aveva abbandonato il poeta e Lei:
se n’era andato giù al campo dei mirtilli,
dove uno senza mano gli dava sempre
qualche boccone di pollo o tacchino
grondante sugo e maggiorana.
Quel giorno l’uomo non c’era.
Ma aveva lasciato la sua mano finta
su di una seggiola al sole.
Il cane, che era più furbo di quello che si possa
immaginare, si mise in bocca la mano e sgambettò
scodinzolando, (un po’ stizzito per il pasto
mancato), verso le pozze dall’altra parte
del paese.
Per poco una scolaresca impazzita,
che tornava da una gita ai fiumi,
non lo investiva.
Cantavano l’Ottava di Mahler
mentre il conducente sonnecchiava
smarritosi fra le cosce della bella maestra
dai capelli di rossi fusilli.
Il cane e la mano vennero sbalzati
accanto ad una stalla.
Lì, il cane e la mano, si sedettero.
Naufragio con spettatore
(diranno poi):
all’interno un’esile tarpan
stava avendo l’orgasmo più poderoso
della sua vita.
Poi morì
così com’era vissuta,
teneramente.
Il cane e la mano, sconcertati ed allibiti,
procedettero poi verso le pozze.
Il cane si fermò infine nel campo tricolore,
vicino all’acciaieria,
dove, masticando l’arto, s’ingozzò in silenzio.
Nessuno poteva sentire i suoi rantoli
con i frastornanti motori della fabbrica accesi;
a parte un bambino,
che con le mani luminose come aquiloni,
veniva, (un po’ di sbieco, un po’ incerto),
verso il luogo della strage;
e come arrancano certe cornacchie arrossate
si era messo ad osservare la scena,
senza far niente.
“Da grande farò il poeta”
si era infine detto
fissando la carcassa immobile.
Andrea Bianchetti (1984) è poeta e drammaturgo. Collabora con la rivista di letteratura e critica Cenobio. Ha pubblicato Sparami amore di cera (Lugano, Alla Chiara Fonte, 2007) e Estreme visioni di bianco (ibid., 2012) oltre a una serie di testi per riviste ed antologie. Del 2013 è il testo Carneficine (Locarno, ANAedizioni) adattato e messo in scena da Ledwina Costantini per OperaretablO e incluso nella rosa degli spettacoli preselezionati per il premio del 1° Incontro svizzero dei teatri – 2014. Lo spettacolo -dopo una premiere al Teatro Sociale di Bellinzona nell’Ottobre 2013 – ha poi vissuto una una intensa tournée. Il lungo testo qui proposto è un poemetto per più quadri.
Fotografia di proprietà dell’autore.