Antonio Colinas (La Bañeza, 1946) è poeta, romanziere, saggista e traduttore. Le sue prime raccolte poetiche risalgono al 1969 (Poemas de la tierra y de la sangre e Preludios a una noche total) e proprio nel 2019, a cinquanta anni dal suo debutto come poeta, è stato insignito di due prestigiosi premi concessi da istituzioni italiane: il “Premio Lerici Pea alla carriera” e il “Premio Dante Alighieri”. La sua dedizione alla poesia è stata costante nel tempo e gli è valsa altri importanti riconoscimenti come il “Premio Nacional de Literatura” (1982) e il “Premio Reina Sofía de Poesía Iberoamericana” (2016).
Isabella Tomassetti insegna Letteratura spagnola presso l’Università di Roma “La Sapienza”. È specialista in poesia spagnola dei secoli XV e XVI ma si è dedicata anche alla letteratura contemporanea con saggi e traduzioni su Unamuno e María Zambrano. Attualmente prepara la traduzione di un’antologia di poesie di Antonio Colinas.
Alessandro Orofino, 42 anni, laureato in Filosofia, vive a Roma. Scrive poesie, racconti e recensioni di libri. A dicembre è uscito il suo ultimo romanzo, "La festa del Santo".
Freddy Castillo Castellanos (1950). Avvocato, scrittore e docente nato a Barquisimeto (Venezuela), dove risiede. Rettore-Fondatore dell’Università Nazionale Sperimentale di Yaracuy (1999-2011). Direttore e professore di seminari e di laboratori di poesia presso la Casa de las Letras “Antonio Arráiz”. È stato membro del consiglio direttivo della casa editrice Biblioteca Ayacucho ed è stato membro del consiglio dei lettori della casa editrice Monte Ávila, Caracas. Autore dei seguenti libri di saggi letterari: Incisioni; Sucre, il più sereno degli eroismi, La scienza della cavalleria andante; La gastronomia come patrimonio immateriale. Ha fondato e diretto le riviste letterarie Letra Continua e Papel Abierto.
Forugh Farrokhz?d, poetessa e regista, nata a Tehran nel 1935, trascorre l’infanzia nel più antico quartiere della città, in una casa dal giardino adorno di alberi d’acacia, dove inizia a comporre versi e a interessarsi d’arte a soli sedici anni. Questa l’età del precoce matrimonio con il cugino Parviz Shapour, molto più grande di lei, dal quale nasce il figlio Kamy?r, che deve presto abbandonare quando sceglie di seguire appieno la propria vocazione poetica, divorziando dal marito; per le leggi dominanti non è più ritenuta adatta al ruolo di madre e per il resto dell’esistenza le viene proibito di avvicinarglisi. Nel 1955 pubblica la sua prima silloge, “Prigioniera” (Asir), sotto l’impulso della “scuola nim?ista” (She‘r-e nou) di Nim? Yushij, capostipite della poesia nuova persiana, ispirata, nella temperie letteraria primonovecentesca, a un equilibrato criterio di distacco dagli stilemi metrici e formali vigenti sino alla dinastia Q?j?r (1790-1925), in linea con una più libera musicalità della versificazione così come con le esigenze contenutistiche del presente, al di là della codificata imagerie della lirica classica. Tale volume presenta in nuce i tratti che ne avrebbero favorito, da parte della stampa e delle frange politiche osservanti la Shari‘a, la fama di “poetessa del peccato”, penna simbolo della ribellione femminile, ancora sprovvista di una definita identità poetica ma già saldamente orientata alla difesa della parità intellettuale e politica della donna. Voce coraggiosa la sua, contro il muro dell’ipocrisia e della morale pubblica, pronta a schiudersi come farfalla, dal bozzolo soffocante di una cultura rigida e maschilista. Nel 1956, a seguito di una crisi depressiva indotta dall’allontanamento forzato dal figlio, lascia l’Iran e compie un viaggio in Italia, lungamente descritto nel diario personale. Poco dopo dà alle stampe “Il muro” (Div?r) e “Ribellione” (‘Esy?n), opere in versi dove affronta, con richiami ricorrenti ai temi della prigionia e della sovversione, il rimpianto per l’innocenza perduta, la lontananza dall’amatissimo figlio, le pene d’amore, la solitudine dell’anima, la questione femminile e la condanna del puritanesimo della società. Queste tre raccolte sono per l’autrice «gli ultimi affannosi respiri prima di arrivare a una specie di liberazione dall’individualismo e giungere alla fase dell’elaborazione mentale», sviluppo della piena maturità, acquisita nel 1964 con il capolavoro poetico “Un’altra nascita” (Tavallodi digar), che la consacra come firma di spicco della rivoluzione letteraria iraniana avversa alla censura del regime Pahlavi, tesa a un impianto di carattere filosofico e ideologico, esito della lotta politica e sociale verso la collettività di ogni genere e paese, tentativo di resistere, mentre «tutti i valori hanno perso il loro peso e stanno per crollare». Il dettato sorgivo e a tratti ingenuo della sua prima produzione si raffina pertanto in un minimalismo dai toni conversativi, tramite il superamento del predominio dei contenuti autobiografici, nell’ottica di uno sguardo universale sulle manifestazioni simboliche e mitologiche della coscienza. L’introspezione soggettiva prediletta agli esordi diviene qui metafora di una smarrita unità, di una nostalgia dell’Origine comune a tutti i popoli (Leitmotiv del Masnav? di Rumi), di un ancestrale impulso alla vita che oltrepassa la sorte individuale, «perché chiunque rimanga lungi dall’Origine sua,/ sempre ricerca il tempo in cui vi era unito» scrive il Mowl?n?, per mutarsi in quel fuoco che «chi non l’ha [...] ben merita di dissolversi nel nulla!». Canzoniere di «fata piccola e triste», il volume segna l’approdo a un vocabolario di stampo colloquiale che, accostatosi ai valori dell’impegno civile, non perde tuttavia il retaggio mistico della lirica persiana, nella sua ancipite e gnostica simbologia, intrisa al contempo di ascetismo e miscredenza, di estatica ricerca del divino e infamia (bad-n?m?), affinché l’Acqua di Vita che giunge dalla conoscenza interiore renda chiara e trasparente la percezione delle cose, affrancando l’umano dalle sovrastrutture mentali che lo incatenano (si ricordino in primis H?fez e Khayy?m). La scrittura è in tal senso uno sposalizio cosmico tra il poeta e l’universo, è la finestra di un’anima desiderosa di ricongiungersi alla Sorgente Eterna, affacciata sullo spettacolo mortifero del regno materiale, nella continua osservazione della natura e dei misteri amorosi. Geometria euritmica di priorità semantica entro cui confluiscono realismo e astrazione, questa della Farrokhz?d, per la quale «la Poesia nasce dalla vita e dalla realtà, non bisogna sfuggire o rifiutare, bisogna andare avanti e sperimentare anche gli attimi più dolorosi e grotteschi». Vivere, testimoniare il mondo, ecco il compito di chi scrive, per disvelarne l’arcana e criptica essenza, nella «solitudine aliena», in compagnia di un messaggero celeste, di «qualcuno che nel cuore è con noi, con noi nel respiro, nella voce con noi». Medesimo ascolto va riservato infine agli altrui destini, spesso tragici, come accade quando realizza un documentario sui lebbrosi di Tabriz (1962), stimolato dall’incontro d’amore avvenuto nel frattempo con il regista Ebr?him Golest?n, al quale confessa: «Se potessi essere parte di questo immenso infinito, allora potrei stare dove voglio io... Vorrei finire così o continuare così... Dalla terra nasce sempre una forza che mi attira verso di sé, andare avanti o salire non mi importa, vorrei soltanto sprofondare insieme a tutte le cose che amo. E insieme a tutte le cose che amo integrarmi e mescolarmi in una totalità immutabile». Una sorta di premonizione, poiché la morte la coglie all’improvviso il 13 febbraio 1967, tra le stradine alberate del quartiere di Shemir?n, a Tehran, in un incidente d’auto. Verrà editata postuma, nel 1970, la raccolta “Crediamo all’inizio della stagione fredda...” (Im?n bi?varim be ?gh?z-e fasl-e sard...). «Ricordati del volo/ l’uccello è mortale», sembra sussurrare la sua scarna tomba, ai piedi delle montagne innevate degli Elburz, a chi va portandole un fiore. Quel volo custodito tra le pagine infuocate e magiche dei suoi libri, che per mezzo secolo gli studenti di tutto l’Iran e non solo hanno esibito come stendardo di libertà e di uguaglianza: quel volo che nessuno mai potrà più trattenere. Del resto «come si può/ a chi se ne va/ così paziente,/ così pesante,/ così perduto,/ ordinare di fermarsi?».