Atelier 94: Gian Mario Villalta – La solitudine, «fino a quando tutto è sommerso» – Commento di Eleonora Rimolo

ATELIER 94Gian Mario Villalta è nato a Visinale di Pasiano (PN) nel 1959, vive a Porcia. Ha pubblicato i libri di poesia: Altro che storie! (Campanotto, 1988), L’erba in tasca (Scheiwiller, 1992), Vose de Vose/ Voce di voci (Campanotto, 1995 e 2009), Vedere al buio (Sossella, 2007), Vanità della mente (Mondadori, 2011, Premio Viareggio). Numerosi gli studi e gli interventi critici su rivista e in volume, tra cui i saggi La costanza del vocativo. Lettura della “trilogia” di Andrea Zanzotto (Guerini e Associati, 1992), Il respiro e lo sguardo. Un racconto della poesia italiana contemporanea (Rizzoli, 2005). Ha curato i volumi: Andrea Zanzotto, Scritti sulla letteratura (Mondadori, 2001) e, con Stefano Dal Bianco, Andrea Zanzotto, Le Poesie e prose scelte (Mondadori, 1999). Del 2009 è il non-fiction Padroni a casa nostra (Mondadori). I suoi libri di narrativa: Un dolore riconoscente (Transeuropa, 2000), Tuo figlio (Mondadori, 2004), Vita della mia vita (Mondadori, 2006), Alla fine di un’infanzia felice (Mondadori, 2013), Satyricon 2.0 (Mondadori, 2014), Bestia da latte (SEM, 2018). È direttore artistico del festival Pordenonelegge.

Atelier 94
Il movimento nascosto

Inediti di Gian Mario Villalta 

Commento di Eleonora Rimolo


Questi testi di Gian Mario Villalta sono una visione sussurrata, un affastellarsi di sogni e di visioni inquiete del dormiveglia che minano la serenità della vita quotidiana, ricacciando l’uomo nello spazio oscuro della scomparsa, che da sempre è l’ossessione maggiore di ciascuno di noi. Il tempo del sonno è una simulazione della morte, ma, nel momento in cui si sta uscendo fuori dalla notte e si è in procinto di svegliarsi una o più immagini, lampi, intuizioni, sembrano affollare la mente e rivendicano un ascolto, una lettura, prima di ricominciare a scappare dal nulla, almeno per un altro giorno.
   Il poeta chiede più volte a se stesso “ancora un minuto” perché è cosciente di non poter reclamare nient’altro che pochi attimi al tempo che scorre e che trascina con sé tutto lasciando soltanto pochi residui, relitti di una vita. Nello scarto minimo tra risveglio lento e ripresa delle frenetiche attività quotidiane si incistano oggetti, luoghi, presenze fisiche e metafisiche («Forbici, dita, sangue e la chioma verde infinita / di un albero grande – dietro / tutto nero, una lavagna dove compare maiuscola / la parola OSSO»). 
  Quale il loro significato, al di là di quell’esserci come ectoplasma nella memoria corrotta e stordita dalla stanchezza? La luce getta inquietudine e non speranza sulle visioni sopravvissute al sogno («Mentre inonda la tenda la luce che la porta finestra / ricuce sghemba – pare umida – sul pavimento. / E con la luce l’attesa»): non chiarisce quali sono i reali desideri, le attese, le coordinate di chi ancora deve scegliere se «essere chiunque o diventare se stesso». Intanto però suona una sveglia ed è un suono reale, calato nella verità fattuale (che quindi non si può ignorare, a patto di pagarne le conseguenze): rimane un ultimo residuo di sogno impossibile, cioè la sostituzione di noi stessi con un altro, come se potesse esserci una controfigura anche durante gli eventi della vita («Ogni mattina quando stride sogni qualcuno / al tuo posto che prende su l’apparecchio / e sa cosa rispondere«), oltre che un ologramma di noi stessi che agisce liberamente durante la fase rem, penetrando nei nostri più oscuri desideri, senza di fatto mai riuscire a realizzarli. 
   È l’alternarsi tra le due fasi che scompatta l’Io, che lo rende fluido, inerte, passivo: «tutto passa di vita in morte in vita in un istante» e, di conseguenza, ogni gesto, ogni afflato emotivo si dimostra completamente vano e suona come irreale dentro la superficie cava delle possibilità («inutile piangere, gridare»). 
   Ciò che mette in relazione i nostri pensieri, che regola le nostre azioni, in questo altalenarsi tra realtà e sonno si nullifica, diventa «utile ornamento», e con un rovesciamento pessoano ciò che è vissuto nella dimensione onirica si impone con maggiore potenza emotiva rispetto a ciò che viene vissuto nella dimensione reale. Questo avviene perché durante la notte non somministriamo al nostro cervello alcun filtro percettivo dell’esperienza, e quindi come una creatura da noi indipendente la psiche agisce attraverso l’attivazione di stimoli e non di sensazioni («Ma è stato mentre sapevi / di sognare (per questo gridavi)») restituendo al poeta un senso di vanità del tutto. Eppure si resta, si attraversano le ore, le giornate, i mesi, gli anni, anche se la vita è un “virus” che “incùba incubi” attraverso la memoria, strumento di dolore sempre pulsante. 
   Questo processo provoca una combustione interiore che si traduce in cenere: «cenere fino a quando tutto è sommerso e quieto», polvere che ostruisce tutti gli interstizi attraverso cui entrava aria, per cui sembrava che valesse la pena anche soffrire. E invece il poeta ci propone diversi frame di una devastazione totale e incontrovertibile: un processo di non ritorno se oramai «non hai più paura che della pura / volgare umiliazione di patire per niente» e perdersi nell’incoscienza del torpore notturno, finire, appare l’ultimo unico gesto davvero reale, davvero sentito, l’unica rivoluzione in grado di sciogliere il dubbio nevrotico del non capire se si è al di dentro o al di fuori di sé e della propria abitazione terrena («abitazione civile / da dove guardi e ti ostini a toccare i muri / per essere certo che sei di dentro, / che un dentro c’è – e c’è un fuori ancora –»). 
   L’unica cosa reale è lo sprofondare da un abisso all’altro, continuamente, freneticamente: giorno e notte, sonno e veglia, desiderio e solitudine, dentro una spirale incessante di versi polifonici, a volte convulsi altre più distesi, ma sempre evocativi e tesi alla condivisione con una alterità umanissima, sebbene lontana. Scappare dalla morte, dunque per ritrovare nell’incontro di una condivisione impossibile con un Tu irraggiungibile quella percezione dell’esserci, dello starci. Il risultato è però deludente, affrontato dal poeta con toni a metà tra l’ironico e l’arreso, perché il rincorrere se stessi dal giorno alla notte e poi ancora dalla notte al giorno non fa che causare un cortocircuito di insonnie e abulie («Sono stato un bambino insonne»), un precipitare nei pozzi più oscuri del nostro inconscio, dove però – ammonisce il poeta, quasi a voler leccare le ferite ad un lettore ancora ignaro degli effetti di questo processo inevitabile di annullamento – «non è così brutto / come sembra, è solo lievemente / insensato».

 

da “Il scappamorte” (veglie e risvegli), in uscita per Amos Edizioni.

*

Ti stai attardando e lo sai nelle stanze del sonno
dove il gufo e la donnola parlottano quieti
nello specchio che versa il liquore degli anni
sul pavimento: hai avuto paura, ma ora il tuo corpo
galleggia nel tempo, c’è il platano nel cortile
della scuola, il trattore, prendi il tuo posto
nella foto con la maglia a righe.

Ancora un minuto un minuto.

Ti riconosce una fuga di echi.
La proroga tra l’essere
chiunque e il diventare te stesso
dura l’incalcolabile.

*

le ciglia sommerse dal biancore, i canneti agitano le fruste
nel turbinìo dei fiocchi, il vento ha la neve negli occhi, il fiume
le anatre sotto un tronco, con i funghi marci, una ciabatta, tutto
passa di vita in morte in vita in un istante

*

la sera non basta alla stanchezza, il vicino sussurra
alle piante, il bicchiere rimasto sulla tavola
nel riflesso del vino curva il pane, la forbice
e la tovaglia, anche lo sguardo fa il giro
e questa – si accerta – non è solitudine

*

Velo viola la sera lieve accarezza i fiori
freddi del melo – una goccia di resina inizia a formarsi
sulla corteccia. È questione di ore

di giorni.
Non guardare negli occhi
il cane non correre non gridare
con la voce del suo padrone.

Felici i sempre connessi
perché con essi gli amici
e i nemici sono congiunti
e inafferrati inter-essi?

Confessi a te stesso che della felicità
sai la voglia: fa feste
all’aria intorno a te e ignora
il boccone offerto, come il cane addestrato
alla guardia del cuore
quando sfugge al guinzaglio.


 VILLALTA

Fotografia di © Dino Ignani.