Atelier 94: Editoriale “Contro un possibile dadaismo” di Matteo Fantuzzi

ATELIER 94

Atelier 94
Il movimento nascosto

Editoriale

Contro un possibile dadaismo 
di Matteo Fantuzzi

Se dovessi immaginare un reale motivo per cui dopo parecchi anni – come redattore prima e come coordinatore delle redazioni poi – abbia deciso di accettare la proposta avanzata da Giuliano Ladolfi di assumere la direzione della sezione cartacea di «Atelier», credo che la vera risposta sia da ricercare nella rapida evoluzione alla quale stiamo assistendo all’interno dell’attuale poesia italiana, un’evoluzione che senza le giuste attenzioni, contrariamente a quanto di solito accade in natura, potrebbe davvero non produrre miglioramenti.
Bisogna considerare che oggi uno spazio di riflessione cartacea, in particolar modo in poesia, assume davvero le caratteristiche di una forma di resistenza, desueta, quasi un controsenso, un sasso che lanciato nell’acqua di uno stagno, invece di formare cerchi concentrici, finisce per affondare senza nemmeno produrre un suono.
Vale davvero l’idea che non sia più possibile un momento di discussione nella lunga sommatoria di testi, di opinioni, nella continua sovrapposizione in cui in particolare la rete ci ha sempre più negli ultimi anni abituato? E cosa vuol dire oggi scrivere poesia?
   È davvero, come scrive Paolo Giovannetti nel suo La poesia italiana degli anni Duemila edito da Carrocci (p. 42), che «L’unico segno di poeticità ampiamente accettato, da cento e più anni a questa parte, è costituito dal fatto che quasi tutte le poesie vanno a capo in modo diverso da come lo si fa nella prosa: cioè in modo arbitrario, senza che la frase sia conclusa. Per il resto, le regole linguistiche della poe sia sono altamente volatili, discontinue»?
   Possiamo dirci soddisfatti da un’opinione come questa? Probabilmente no, anche perché in queste linee analitiche sta la teoria di chi nella pratica considera in qualche modo tutto lecito e tutto poesia. Dagli slam fino al meticciato del rap, tutte queste forme sembrano voler ricadere ed essere contemporaneamente accolte nella comunità della poesia, una poesia tout court senza alcun tipo di distinguo né formale né soprattutto sostanziale.
   E la questione sostanziale non è un punto di poco conto, perché probabilmente proprio dalla capacità o meno di entrare all’interno delle questioni, di sollevare problemi, attriti, scarti, di raccontare il presente o di rileggere con occhi disincantati il passato, di prendere sulle spalle problematiche concrete come le violenze, l’abbandono di un’umanità concreta e la conseguente disumanizzazione, sta la grande sfida di non relegare la poesia italiana a protagonista minore dell’esperienza internazionale.
  Se volessi operare un parallelismo, credo che avvicinerei questa fase a quella del dadaismo, quando la sacrosanta esigenza di rompere determinati schemi non solo aveva prodotto esperienze apprezzabili dal punto di vista letterario, ma aveva comunque incontrato vaste aree di consenso, anche a livello accademico, perché il fascino dell’“andare contro” può scaldare non solo i cuori di chi non ha gli strumenti per
comprendere pienamente le questioni testuali, ma anche di chi in qualche modo deve considerare ogni evoluzione e cambiamento.
   La rivista «Atelier» si pone però obiettivi differenti: tra questi credo che sia doveroso cercare di raccontare in maniera trasversale non più solo le nuove generazioni, ma anche chi in quelle precedenti ha tentato di proporre un’idea di poesia, toccando tematiche sensibili, andando a verificare i tessuti e, in definitiva, andando a scardinare quel postmoderno di cui tanto si è discusso e che forse solo oggi sembra non essere più importante – nonostante rimanga uno degli obiettivi letterari di riferimento nella “evoluzione” anche della nostra personale scrittura.
  Non possiamo in definitiva non considerare dopo questi oltre vent’anni di lavoro che il compito primario della rivista non consiste nel trovare sempre e necessariamente il nuovo, quanto piuttosto delineare pienamente i margini della militanza anche andando a tracciare la rotta piana e sensata per chi oggi alla poesia si affaccia e necessariamente ha bisogno, proprio come i naviganti alla deriva, di un faro che permetta di orientarsi.
   Il mare in tempesta, infatti, è oggi forse più facilmente individuabile, almeno per chi lo osserva dalla terra ferma, ed è l’incapacità di andare oltre a schemi precostituiti, come l’esplosione del performativo, l’iper-produzione testuale, l’incapacità di farsi mediare dai filtri, il mancato dialogo con le generazioni precedenti: tutto fa parte di una tendenza a cui la proposta costante di opere valide, di sillogi importanti di analisi profonde, deve fare da contrappeso.
  L’alternativa è dirci tutti dadaisti e, come tutti i dadaisti, andare contro le regole del passato per il solo gusto di voltarsi dall’altra parte. L’alternativa che «Atelier» propone è quella di raccontare il presente con questi obiettivi può diventare possibile un accrescimento collettivo della comunità dei lettori e di quella stessa dei poeti. La rivista si colloca oggi in questo alveo, in una posizione non retorica di serietà e intransigenza e credo che questo dipenda anche da nuovi retaggi sociologici bene delineati da Guido Mazzoni nel testo Sulla poesia moderna edito da Il mulino nel 2005:

La poesia degli ultimi secoli, il genere che meglio di ogni altro incarna la componente narcisistica dell’individualismo moderno, è anche un gigantesco sintomo storico: evidentemente una parte della cultura contemporanea dà per scontato che si possa dire una verità universale chiudendosi in sé. Ciò significa ritenere che il rapporto con gli altri e lo scorrere del tempo, ovvero le dimensioni propriamente oggettive della vita non siano essenziali alla comprensione della realtà. Facendo di ogni persona l’origine dei significati e dei valori, la società moderna ha legittimato questo esempio estremo di individualismo monadico e ha reso difficile credere che esista una verità ulteriore rispetto alla nostra verità, al nostro modo di guardare le cose, al nostro destino personale o tutt’al più familiare, come invece non accade nelle società che conservano solidi valori collettivi (p. 214).

Forse noi di «Atelier» vogliamo essere quella società e portare avanti una visione poetica umana e collettiva. E la questione non è davvero banale perché l’alternativa è proprio quella di arrendersi all’ipotesi che ogni soggettiva visione venga classificata come una complessiva visione, nell’ottica sempre più supinamente accettata che l’utilizzo dei social porti a una desocializzazione e a un individualismo. In realtà tutto questo – in particolar modo in poesia – conduce a un impoverimento che, nella migliore delle ipotesi, produce una modalità di setta o l’aggressività del branco.
   «Atelier» cercherà nei prossimi numeri di continuare un percorso su cui negli anni ha cercato di costruire le proprie sorti: importanza primaria dell’opera (e non dell’autore), ruolo dell’opera all’interno della società e delle coscienze, difesa delle identità più fragili – vuoi per ragioni geografiche, vuoi per meccanismi editoriali, vuoi per l’utilizzo del dialetto –, e cercherà di operare mediante un discorso organico per mostrare la necessità di una poesia essenziale e senza fusioni con ulteriori linguaggi, perché questa essenzialità è in grado di parlare a un numero superiore di persone rispetto alle attese.
   C’è bisogno in questa fase di ribadire l’importanza di un lavoro artigianale, anche di fronte a ottiche consumistiche e di produzione di massa: la sfida è oggi quella di rendere un prodotto agile e artigiano, destinato a tutti gli appassionati: condurre cioè tante persone a leggere testi importanti e a non permettere che qualche pensiero estemporaneo le costringa a scambiare la mediocrità con l’eccellenza.