Antonio Bux (Foggia, 1982) ha pubblicato vari libri, sia in italiano, tra i quali Trilogia dello zero (finalista premio Lorenzo Mon¬tano, vincitore premio Minturnae), Kevlar (vincitore premio Ali¬nari), Naturario (selezione premio Viareggio), che in spagnolo (23 – fragmentos de alguien, El hombre comido, Saga familiar de un lobo estepario). Suoi lavori sono stati tradotti in varie lingue e antologizzati in opere collettive come InVerse: Italian poets in translation, a cura della John Cabot University. Ha tradotto numerosi autori di lingua spagnola, su tutti Leopoldo María Panero. Ha fondato e dirige il blog Disgrafie, oltre che una collana per la casa editrice RPlibri e due collane per le Marco Saya Edizioni.
Antonio Bux
Tre inediti
Da “Sasso, carta e forbici”
*
LA GONDOLA
Ci siamo su una gondola, a formare prati,
piccole rotaie verdi. La gondola e i sei anni,
e i sei anni dentro un mare, dentro parole
spinte da capodogli. Suolo azzurro, amore,
dove mi tieni le mani nascoste, tra la sabbia
e la metropoli che si apre, giungla dei sei anni
quando tocchiamo abissi sulle altalene;
(noi arrugginiamo così, con il sole
fuori dagli occhi, e la gondola
rubata al gondoliere, e la canna sul filo
di un’acqua che è sopra il tempo.
Questo tempo a mostrare i sei anni,
i sei anni che non sono pochi
a navigare il fondo).
Ora la gondola rubata è oltre le onde,
e il gondoliere torna bambino,
sulle rotaie i capodogli spogliati
d’aria sono parole, e respirano.
E poi il prato pieno di mani, amore che è altalena
fino alla giungla si sale, non più metropoli
ad arrugginire le vecchie abitudini…
(Così oggi sulla gondola spaziale,
abbiamo sei anni e siamo capaci
di avere soltanto sei anni;
e una mano più grande ci spinge
senza più onde né tempo
sott’acqua dove le nostre altalene vanno
e di silenzio il sole sembra vero).
*
UNA FOTO O UN RICORDO (parte II)
Ti ho trovata morta sulle scale.
Era ferragosto, per la fretta di vedermi
sei inciampata nell’ultimo scalino
e cadendo all’indietro così
come sei nata, in un salto di luce
sei andata via, con i vicini accanto
mormorando sul tuo corpo mezzo rotto.
È stata l’ultima volta che ho pianto,
poi solo un muro, specie quando
ti ho vista rialzarti dal marmo
della camera ardente venirmi contro
a dire: sei tu che stai sognando
la mia morte; così te ne sei tornata
sdraiata a dormire. Fu dopo quella notte
che tu attraversasti il portone
ogni maledetto giorno: a casa ti vedevo
salire le scale con me, mentre raccontavi
la tua giornata all’ospedale, tra un paziente
e una palpata del primario, e io geloso,
col tuo bisturi gli avrei tagliato via tutto;
ma tu mi frenavi, dicevi: è solo lavoro,
non è niente, torniamo a casa, amore,
è per il bene di nostro figlio. Di quale figlio
tu parlassi non mi era proprio chiaro,
ma lì per lì feci finta di avercelo un bambino
per non deluderti, almeno da morta. Sono passati
dieci anni e ogni giorno facciamo quelle scale,
questa volta senza inciampare, e ogni giorno
provo sempre a fare finta di non vedere, chissà
uno scalino, o il passamano per venirmene con te
a passeggiare là in alto, dove forse abbiamo un figlio.
*
FORBICI (parte I)
Il gioco era chiedere, dire montagne,
fare onde coi passi, chiari sulle acque
– e le onde respingevano future –
ma fate disegni calmi, diceva la scuola,
più calmi disegnate le onde: così uno
diventava bambino, con l’acqua
sporca, come il corpo addosso,
con la poca acqua caduta dai sogni
che ora è corpo e cenere, o fuoco,
o è corpo che si chiede esistere,
o resistere se è gioco quel sasso
a tirare, o a esser tirato, e creare
un disegno per bucare e dire carta,
o per tagliare con le forbici
a mani piene, pietre immaginarie.
(E questo gioco era montagne
alte, immaginarie erano vite
così piene che si era bambini
da soli, a disegnare le onde).
Non che sia abitare questo
prima di vivere, non che sia
più gioco o vanità la foresta
che si placa con gli anni, o uno
a sé davanti che gioca, e perde,
o solo si trova schierato.
Fotografia di proprietà dell’autore.