Angelo Restaino – Inediti

Angelo Restaino, di origini irpine, è nato a Salerno nel 1982. Ha vissuto a Catania e si divide ora tra Salerno, Roma e Pescara. Di mestiere paleografo e archivista, dopo aver lavorato per diversi anni come freelance, è attualmente in servizio negli Archivi di Stato. Ha fondato e presieduto l’associazione professionale Arch.I.M. – Archivisti in movimento. Alcune sue poesie sono apparse nella rivista Poeti e Poesia e nell’antologia collettiva Distanze Obliterate. Generazioni di poesie sulla rete (Puntoacapo Editrice, 2021). Ha pubblicato studi nel campo della paleografia, della codicologia e della diplomatica. Contrada dello Zodiaco è la sua Opera Prima.

 

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Mare aliquorum

 “La ricorderò come una città
in erezione, tanto è cantiere,
tanto è estate sempre, tanto
spreme sogni senza essere
nemmeno bella.”
L’esarca delirava nel sonno,
ben lontano il pan-qualcosa
(fossero bizantini o slavi),
e si accendevano tessere d’oro
nella sua cameretta
lasciategli dal padre
a girare sulla cupola
di uccelli e scacchisti meccanici
a scacciare il declino, i fantasmi
– e tanto doveva bastare.
Si beava in sogni d’oro,
si beveva le ultime gocce
del sudore degli eunuchi.
Pescava gli avanzi dei Turchi.

Pescara-Sebenico
Foggia-Sarajevo
– e da Vieste quanto serve?
è appena un salto
a chiudere il periplo
di questo mare aliquorum:
l’Adriatico, imbuto di Venezia
braccio di mare aperto in basso
agli affondi dei nemici di immagini.
A vista d’occhio, a portata
di lancio brillano tremiti
sulla membrana d’acqua,
calco argenteo dei tratturi.
Gli stiliti vedono il mare
dagli eremi, lo promettono
ai tuguri nei giorni di pioggia.
Foglio di liquore verde,
nostalgia di piattaforme
d’estrazione, un postulato
all’orizzonte, poco sopra
o poco sotto. Ristagnano
velleità e lussuria di laguna,
necessità di reconquista.
Quanto grandi non si sa:
qui si ritirano negli arsenali
le giunche cotte nel brodo
sempre tiepido dell’Egeo.

Marea liquorum, foglio
di mercurio più che vino –
– massa che sostanzia
contorcendosi cobalto
le scosse tra sinapsi,
e ne affiorano parole
o altri prodotti della mente.
Quel poco che ne resta
è negli anfratti, nelle croci
dei calafati quando imprecano,
nei miti raccontati tra i lidi
colti baciandosi sulle bici
nei nadir delle stagioni basse.
Qui poco o niente si regge,
si può solo ricordare,
sempre si sia in tempo.
Queste città se è inverno
– con il corteo semidivino
di cui per caso siamo parte –
se ne volano con il vento.

 

 

L’aurora dei fornai e dei rimastini
serpeggia la città di intenti rari,
misteriosi se non del tutto assenti.
Fatico a dire i meriti del giorno,
il mio intestino sembra rifiutarli,
contraendosi in fitte favolose.
Vecchie, ubriachi ed agenti segreti
scantonano via dal consorzio umano,
o meglio a scontornarli sono io.
Non so se sto vedendo tutto un popolo
furtivo ritirarsi o conquistare
dei posti di manovra giù nell’ombra
ritagliata nel sipario dei santi,
o se invece – sento una donna correre –
di quel popolo sono parte anch’io.
L’alba restituisce la nostra vita
e tutto quel che manca e ne consegue
quale davvero è: disabitata.

 

*

 

Canto del buio lungo

Mentre tenevo gli occhi chiusi
dev’essere accaduto qualche cosa,
la stanza idest il mondo
si è riempito di gente.
Qualcuno deve aver prolungato
le strade fino all’orizzonte,
smagliato gli spazi,
diradato gli spari.
Prima finiva tutto prima.
Cerco nei muri e sugli oggetti i buchi
scavati dal tuo sguardo,
si intrecciano ai disegni sulla parete palinsesto
che fa da confine della periferia.
Dicono sia il terrapieno di un treno
veloce che qui non ferma mai,
ma non ne sono certo.
Adesso abito il deserto,
passo il mio tempo ad allibire al genio
delle api, studio chimica
con lenti che mi fanno gli occhi grandi.
Tutto congiura e si consuma
ad affrettare il rilascio del passaporto
per il nord di dentro.

 

*

 

Disturbo dell’attenzione

La vita dura quanto un movimento
continuo e identico, il battere del cuore.
A volte mi dimentico. Mi godo.
Potrei non udire altro che il rintocco
di me stesso, questo orologio interno
di garanzia e durata imprecisate
scandire ogni secondo, ad impazzirne,
di un palpito d’ovatta, geminato.
Osanna al deficit dell’attenzione:
non sento nulla invece, per fortuna.
Specie nel solstizio, ma in fondo sempre
rimango steso a terra senza fiato
come una creatura priva di meriti
cui sia stata inflitta eccessiva gioia.

 

*

 

La discesa

A ferragosto inizia la discesa.
Il tempo si assottiglia, ci facciamo
più veloci, più prossimi all’impatto.
Riecco i progetti, gli impegni confusi
da scacciare – sciò – obliquando lo sguardo,
interrompendo il contatto visivo.
La sera passano i raccoglitori
di luci, i matti risaltano meno.
I portieri rinfrescano gli androni
dei palazzi, riprendono a cadere
le piogge. Da una goccia si forma
la valanga di un fare inevitabile.