Su “Sull’improvviso” di Alfredo Rienzi (Arcipelago Itaca, 2021)
A cura di Carlo Ragliani
“Sull’improvviso” di Alfredo Rienzi consegna al lettore una sintesi criptica del fare poetico in grado di distinguersi per una squisita lucidità degli intenti, fabbricazione dei testi, e – non da ultimo – veicolo per un messaggio ipertestuale.
Il quale, nonostante la doverosa premessa critica nei meriti della categoricità apparente dell’introduzione, risulta carico di un valore sia autonomo, nel suo essere sostanzialmente fisiologico della scrittura che distingue il torinese, che formalmente in linea con le necessità di sottotesto alla poesia del nostro tempo.
L’autore, infatti, nella composizione di auto-esegesi in apertura dell’opera[i] , consegna una dichiarazione di intenti (ma, ed anzi, soprattutto di scienza) attorno al proprio concetto di poesia, definendola così “strumento ulteriore” di genesi propriamente catabatica e di segno negativo.
Il che, fugando così in sede critica ogni tentazione assiomatica nei meriti di quanto possa (o debba) essere anche la natura dell’arte poetica (quanto più invitando a concentrare l’attenzione primariamente nella chartula del libro), sembra assumere una valenza programmatica endo/eso-poetica dell’elaborato.
Seppur lo scritto introduttivo sembri in realtà più proteso alla statuizione di un manifesto prescrittivo alla lettura dell’intero corpo poetico del nostro (se di intenzionalità e poesia assieme ancora è concesso parlare di questi tempi), risulta più appropriato riflettere attorno alla fenomenicità di tale asserzione – declinata coerentemente con il corpo del dettato poetico.
Rectius: se da un lato non può essere che l’occasum (con particolare attenzione alla non previsione, o prevedibilità, dell’accadimento) a fornire l’abbrivio alla riflessione poetica, non già l’evento in sé sarà il luogo in cui si erge il canto.
Questo perché nel poetare di Rienzi non può che essere il soggetto poetante a richiamare a sé ogni sorta di capacità creativa; se non in termini di forgiatura, di certo in termini di osservazione (mobile e costante, se non anche fluida) della realtà, che da questa scaturisce.
A tal proposito, interessante appare la materializzazione della catabasi nel nostro: collocandosi completamente nel mezzo degli eventi, il verso assume un’attitudine per cui il sema si lasci di certo traversare dagli strali della massa di quanto esistente; con la cosciente certezza, tuttavia, che questo sia anche l’unico modo possibile per passare attraverso (a sua volta) la tessitura del reale.
Così la discesa di cui sopra non risulta più un moto direzionabile sulle ordinate o sulle ascisse, ma sarà piuttosto realizzabile in una sorta di movimento sull’asse facente nome delle “zeta” quello dell’immagine fucinata dall’autore, il che si traduce – al di fuori dei concetti cartesiani – nella percezione della profondità di campo del canto.
Appunto marginale a questo concetto è la scelta del nostro di non coagulare l’immersione del verso prevalentemente nella morte, o nella fine della vita, come momento massimo di discesa; preferendo più tosto la visionarietà – e parimenti l’immagine, e la costruzione di queste – come parossismo espressivo, anche nei momenti più intimi forgiati nel testo in cui il nostro rasenta la soglia più gnomica, dal sentore nichilista.
Per questo nei meriti della versificazione, la cui portata nucleare non può essere più sondata (né scandagliare, a sua volta) per una struttura raziocinante di causa-effetto, risulta fondamentale assumere in sé un paradigma endo-simbolico (ancorandosi ad un concetto storicamente istituito), inteso a superare la ragione e la ragionevolezza del dettato che anzitutto trova causa e legittimazione ad essere in sé stesso, ed in ultima analisi si concede alla lettura come astratta, ovvero ultra-lirica, al più.
In questo contesto, deinde, di particolare rilievo risulta la liricità dell’autore: da intendersi non più come mero attante della realtà, ma come unico ente in grado di penetrare – finendone altresì trapassato – la densa complessità che gli accadimenti, imprevisti o meno, celano; esorcizzando così le vicende dello spettro biografico che tendono ad infestare il verso della poesia contemporanea, per rendere al canto quanto compete esclusivamente la ψυχή (psyché, da intendersi propriamente) del poeta.
Per fini meramente speculatori, si potrebbe determinare che il tenore della rivendicazione computata dall’autore in questo libro esplichi un tentativo di superare i termini differenziali indovati nell’analogia; per squadrarla come unione del sym/dia-ballo, da cui discende una dialettica di contrazione/distensione dell’io – non più come adesivo alla vita universu sensu, ma come partecipativo a questa nella capacità di fornire una risposta, rielaborandola per renderla alla carta.
Ma non di solo di lirismo l’opera si nutre: la stratificazione delle occasioni e della necessità sottese al comporre, difatti, esondano in una ben più strutturata e corposa capacità di nominazione e denominazione.
Così organico ed inorganico nel dettato non manifestano confini precisi, e nemmeno invalicabili, e d il quadro fenomenologico (onde osservare le fattispecie della realtà) si incardinano in queste figure retoriche, di una certa ricercatezza compositiva.
A conti fatti la parola di Rienzi sgorga dalla soglia liminare (ormai labile) tra accadimento e conseguenza di questo; e si indova nel componimento che ne scaturisce, dimostrando un’affezione di reminiscenza panistica, se non anzi panteistica.
Il che declina nella predilezione naturale dell’autore verso la materia animata, che investe principalmente le categorie di flora e fauna, legate entrambe ed in modo interattivo con il soggetto umano che sulla pagina si distende come esperienza, così rielaborata, un tanto.
A questo dato si assomma il dover carpire il senso ultimo, sotteso a quanto sia la verità in quel che occupa il campo visivo di cui il nostro è spettatore, subendone contestualmente una radicale metamorfosi, assieme ai vari soggetti di cui la narrazione tratta, sfiorando i topoi classici.
Concludendo: quanto l’osservazione comporta in termini passivi si tramuta in attività necessaria alla poesia, intesa definitivamente come slancio tonico dell’immedesimazione, per rincorrerne l’incanto – pur troppo – irriproducibile.
* * *
Il ginkgo s’è fatto d’oro: natura
di sonni e risvegli. Inizia a correre
la ragazza si toglie gli orecchini
respira l’argine l’autunno flette
la nuca:
entrò nel suo campo visivo
prima un transito obliquo
riapparve, si fermò. Prese dimora.
*
La prima volta che dal nulla apparve
(un nulla d’occasione, una finzione
dissimulata) non lo riconobbe:
voce intermedia tra l’aria e l’acqua
(un vapore, direbbe l’ermetista).
Espose le sue condizioni (il prezzo
dall’odore di fango –
su altre giurò silenzio)
inevitato dare per avere
e non si dica di viltà e di eroi…
*
Sottili i confini tra le stagioni:
quasi senza preavviso
si passa da una all’altra:
minime tracce sperse
nel soffio tramontàno
segnano la primavera e la morte.
*
Ho sognato cani (o
canidi) che divoravano topi
e lupi tra di loro
tra sterpaglie e arbusti
(desideravo ammirare le cince
e i buffi codibugnoli tra i rami
ma squittii e latrati
mi trattenevano a terra)
È un mondo di ventri,
di fame, eterna
*
Ero su Venere a quei tempi, madre
che aspettavi me come ogn’altro figlio.
Che sapevamo delle nostre vie
di baratri improvvisi e di correnti
ascensionali? Delle verdi piogge
dei neri arcobaleni, dimmi: cosa?
*
PRIMO TEMPO PER IL COMMIATO
Io vivo sull’altra riva del fiume
ora. Sto, non come tu stai – ai piedi
verdi della collina
il ponte di pietra antica, anche il ponte
– che ci portava i sabati
di festa, le bancarelle vanesie –
è crollato. l’amore non ha peso
– dicevi – ha il passo lieve della foglia
ma il ponte è crollato. Senza motivo
non l’alluvione o la frana, il sisma
si è dissolto così,
svaporato come fosse un covone
di fieno offerto alla tempesta, al lampo
come la luce d’un qualsiasi vespro.
Così, come un improvviso niente
un respiro, la vita
*
ALLA LUNA D’OTTOBRE
Sempre dirai, improvvisamente seria,
di non essere mai riuscita a credere
quanto sia strano esistere nel mondo
(da L’estate del mondo, Gabriele Galloni)
Un’aria tiepida, una lepida
luna di tre quarti:
pare una gravida sera di giugno
quando ancora l’estate
è tutta da venire.
È invece fine ottobre
e tutto è già accaduto
* * *
Alfredo Rienzi (1959) vive dalla prima infanzia nel torinese. Ha pubblicato diversi volumi di poesia, da Contemplando segni, silloge vincitrice del X Premio Montale, in 7 poeti del Premio Montale (Scheiwiller, pref. di M. L. Spaziani) fino all’ultimo Sull’improvviso (Arcipelago itaca, 2021, pref. di M. Cucchi). I primi volumi sono in parte confluiti ne La parola postuma. Antologia e inediti, come Premio Fiera dell’Editoria di Poesia (puntoacapo Ed., 2011). Ha tradotto testi da OEvre poétique di L. S. Senghor, in Nuit d’Afrique ma nuit noire – Notte d’Africa mia notte nera, a cura di A. Emina (Harmattan Italia, 2004) e pubblicato il volume di saggi Il qui e l’altrove nella poesia italiana moderna e contemporanea (Ed. dell’Orso, 2011). È inserito nell’Atlante dei poeti dell’Università di Bologna e presente in numerose antologie critiche nazionali. Cura il lit-blog “Di sesta e di settima grandezza – Avvistamenti di poesia”
Sito personale: http://alfredorienzi.wordpress.com
© Fotografia di Wo Occupation, per l’evento “Villanova d’Asti, cultura e turismo
[i] Si riporta verbatim: “Nota introduttiva dell’autore – La vita è movimento e cambiamento: concetto banale ed elementare. Gli estremi del mutamento hanno, mutuando termini medici, la gradualità della lisi e la repentinità della crisi. Discesa e caduta. Sull’improvviso raccoglie una serie di testi e frammenti – vissuti, immaginati, proiettati – del cambiamento per crisi, fulmineo, talora drammatico, imprevedibile o imprevisto, esplorato prevalentemente in minus, per catabasi. L’accadimento improvviso e imprevedibile proietta il protagonista o lo spettatore al bivio tra la follia o l’accettazione. Tutt’altro che una resa, quest’ultima urla il suo tentativo di comprensione del lampo dell’e-vento, la ricerca disperante perché in apparenza vana, di un senso, che non può collocarsi che in territori esterni o complementari alla ragione. La poesia, quando, come in questa raccolta, si avventura oltre i rassicuranti territori del descrittivismo o dell’emozionalismo, non può renderne che barlumi e polverizzate materie. Il non detto tende a prevalere sull’asserzione, l’inspiegato e inspiegabile sulla facile evidenza. Il percorso per necessità si conduce convocando sia il visibile che l’invisibile, le stelle che l’occhio nudo può cogliere, fino alla sesta grandezza, e quelle – oltre la settima grandezza – per cui il nudo e corporeo strumento umano non è più sufficiente. La poesia si fa quindi strumento ulteriore, tenta il superamento dell’occhio-ragione, rischiando di tan-gere l’immaginifico e il fantastico, per attingere all’intuizione. In questo scenario indeterminato, il verso resiste appena alla memoria del suo dettato ritmico – mai rinnegato –, ma tende anch’esso a frangersi, a desistere. Se improvviso è anche lo scarto tra visibile e invisibile, pure la materia verbale tende talvolta a perdere continuità, a incrinare la sua linearità. Il conseguente uso di registri variabili, accennati più che consolidati, tra narratività ed episodico lirismo, tra ibridazioni e sospensioni, diventa dichiarazione di poetica contro l’omologazione di qualsiasi tonalità dominante, nei limiti consentiti dall’inevitabile appartenenza al proprio tempo.”