Alfonso Gatto: «Ho scritto la mia prima poesia a vent’anni in una stanza diroccata…»

di Francesco Napoli

Da Atelier n. 3.
Di Francesco Napoli

«Ho scritto la mia prima poesia a vent’anni in una stanza diroccata. Di là dalla finestra c’era il mare, pioveva dolcemente. Avevo visto per vent’anni le montagne chiudere il golfo e contro il cielo una casetta odorare del suo intonaco rosa che la pioggia risvegliava. […] Questa fu la poesia che mi si rivelò in quella stanza diroccata ov’io ero seduto […]». Così confessa Gatto sulle pagine del «Politecnico» nel settembre del 1947, accompagnando la pubblicazione di dieci poesie composte tra l’agosto del ‘46 e il marzo del ‘47.

E se si volessero rintracciare i versi di quella iniziale ispirazione, non sarebbe difficile ritrovarli in Isola (1932), la raccolta d’esordio, e segnatamente nella poesia liminare del volumetto, Sogno del golfo. Una «limpida marina» così ritratta: «Panorama marmoreo il golfo chiude, /nel desiderio dell’inerzia, il dono/calmo sognato dall’immenso: nude/sorgenti dal profondo al suono//armonioso dell’aria, argentee vette». (vv. 9-13). Stando alla “confessione” del ’47, quel «panorama marmoreo» sembra proprio essere
quello goduto dalla finestra di casa.  Quando poi nel 1941 Gatto riorganizzerà per Vallecchi la sua produzione poetica, sposterà questa lirica, collocandola in penultima posizione nella sezione Isola, senza peraltro apporvi altri interventi correttori di rilievo. Tutta gattiana, invece, la capacità di immergere la poesia in un’atmosfera di sospensione resa diafana da sintagmi quali «lucore pallido», «pura mattina», «tenue segno», «fioca cautela», «limpida marina». Sempre in questi primi versi gattiani si riconoscono qualificanti spie lessicali che segnalano prestiti dannunziani (lucore), pascoliani (abbrividisce), generiche provenienze dalla tradizione (plaga) e anche cardarelliane (esilarata).

«Dalla nostra casa si vedeva il mare, nel golfo delle montagne»

L’attacco di una prosa, anch’essa raccolta in Isola, riporta ancora una volta dinanzi agli occhi il medesimo scorcio, questa volta in maniera decisamente più esplicita, e il titolo, San Liberatore (nome del picco che s’affaccia sul Golfo di Salerno), elimina ogni possibile dubbio: «Dalla nostra casa si vedeva il mare, nel golfo delle montagne». La compresenza in Isola di poesia e poème en prose è un segnale alquanto significativo. Le possibili ascendenze, per un poeta come Gatto dalle molte ma disordinate letture giovanili, non sono univocamente individuabili. Quanto arriva qualcosa d’oltralpe, è sicuramente molto mediato. La suggestione più forte potrebbe essere quella di Campana. Sarà anche utile ricordare come proprio nel 1928 Binazzi aveva curato un importante edizione dei Canti orfici. E il Campana presente a Gatto dovrebbe essere soprattutto quello “notturno”. Ma non manca la probabile influenza del Cardarelli favolista e, almeno sul piano della scelta formale se non su quello tematico, quella dei “vociani”. Caso mai, è interessante osservare come questa tentazione tra prosa e poesia permanga a lungo. Molti ricordano le prose della Sposa bambina (1943) ma è ancora più importante ricordare La spiaggia dei poveri (1944), sicuramente un’opera sconosciuta ai più. Se è vero che in questo volume le ragioni e le forme della prosa prevalgono su quelle più propriamente poematiche, quanto meno resta originale, per i tempi, la coesistenza di tutte e due. Molte delle prose, inoltre, diventeranno un serbatoio tematico e figurativo per il Gatto successivo, quello “civile” confluito in larga misura nella raccolta La storia delle vittime. Con Isola non poteva esserci esordio più felice. Il volumetto, infatti, fu accolto con grande interesse dai maggiori critici del tempo, da Gargiulo – in qualche modo patrocinatore della stampa dell’opera – e De Robertis, da poeti già laureati come Montale («Gatto, come la maggior parte dei lirici d’oggi, è destinato a entrare nella poesia passando per la porta stretta») o, qualche anno dopo, Ungaretti («Nessuna poesia è, più della sua, dorata, succulenta, e fragrante e naturale; nessuna è più della sua nutrita di sole»).

Endecasillabo… “in deroga”

L’esordio portava in sé caratteri già ben impressi. Oltre il menzionato uso del poème en prose, si riscontra una spiccata adozione delle forme metriche, fondanti così un dato strutturale primario. La presenza e la consistenza di un metro quale idea-forma è qui già percepita come contenitore in grado di raccogliere la processione epifanica di oggetti (e poi di “memorie”). La scelta del poeta, prevalentemente verso l’endecasillabo, ma con importanti deroghe verso il novenario di tradizione pascoliana, è con Isola già compiuta e l’esperienza successiva la maturerà appieno: un’opzione in controtendenza anche con i suoi coetanei, così attratti invece dalla libertà metrica di Ungaretti e Cardarelli. Il fine è di un’accurata ricerca, di ispirazione simboli- sta, della musicalità del verso – «De la musique avant toute chose» e «De la musique encore et toujours» – dove talvolta la linea del senso viene anche prevaricata. La medesima rotta di ricerca muove in Gatto l’uso della rima, così netta e costante nel tempo da significare una scelta formale forte. Questa linea lo pone ancora una volta al di là delle scelte di molti poeti a lui coevi sullo stesso punto. Gatto sembra quasi rincorrere una sorta di nuovo valore regolatore e strutturante per la rima e se ne serve assiduamente. Spesso essa funziona come meccanismo necessario a dare ulteriore rilievo all’enjambement.

Grammatica ermetica

Gatto ha senza dubbio in mente, nella scelta, Pascoli, e in misura minore D’Annunzio. Se poi si andassero a fare puntuali rilievi tecnico-formali e lessicali, cioè sulle unità e sugli schemi strofici, oltre che sul rimario stesso, le sorprese non sarebbero poi poche o irrilevanti. L’altro punto da sottolineare con decisione, date alla mano, è che questa prima prova ha avuto un ruolo determinante nell’ambito dello sviluppo della poetica ermetica. Nel 1932, quando apparve, gli Ossi montaliani avevano appena fatto in tempo a vedere la loro stesura defi  nitiva; Ungaretti stava rielaborando le poesie del Sentimento e Quasimodo, dopo Acque e terre, pubblicava nello stesso anno Oboe sommerso. E sono proprio i due testi quasimodiani e quello dell’esordiente Gatto a fondare quella che oggi la critica correntemente definisce la grammatica ermetica, cioè i fondamenti linguistici ed espressivi di un’importante stagione lirica i cui riflessi sono stati a lungo presenti (se tutt’oggi non sono ancora persistenti). Certo, in particolare saranno poi Mario Luzi e i fiorentini a sviluppare e a codificare quel fare poetico che Gatto definiva come ricerca di «assolutezza naturale». Pier Vincenzo Mengaldo ne ha tracciato gli elementi portanti con un’encomiabile primo spoglio lessicale. Emerge comunque dal lavoro del critico tutta l’importanza del primo Gatto nella formazione della koiné poetica dell’Ermetismo. C’è da augurarsi allora che questa traccia sia perseguita, sistemando con la massima precisione possibile prestiti, derivazioni e riflessi sull’opera e sugli autori del tempo. Alla sua seconda prova, Morto ai paesi (1937) Gatto non delude, anzi. Ancora una rapida occhiata alle date, tanto per comprendere in che ambito matura la nuova raccolta. L’opera mette insieme il lavoro poetico del perio- do 1933-’37, quando sono appena usciti o escono testi chiave: Ungaretti con il Sentimento, Quasimodo con Erato e Apollion, Mario Luzi, esordiente anche lui, con La barca. Le Occasioni montaliane non sono uscite in volume
e Sinisgalli, Parronchi e Bigongiari, per restare in area ermetica, ancora devono raccogliere le loro prime cose. Gli amici, non solo poeti, vanno feb- brilmente alla ricerca di questa nuova prova, almeno stando alla testimo- nianza di Alessandro Parronchi che ha rivelato di aver visto il pittore Ottone Rosai «entrare a passi di lupo nella Libreria Beltrami e subito uscirne con un libretto verdolino».

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