Alessandro Bellasio, Monade (L’arcolaio, 2021)

Nota di Carlo Ragliani

Sin da titolo, l’opera di Bellasio trasporta il lettore nel concetto unitario della monade: un ente che, seppur semplice ed indivisibile, nella filosofia pitagorica rappresenta l’elemento primo dell’universo.

Tuttavia non ad un concetto meramente filosofico o matematico afferisce il dettato; ma alla definizione etimologica dello stesso, e per tanto a tutte le conseguenze che il termine greco “monos” (μόνος) come “singolo”, che il testo e l’autore con esso sembrano avvocarsi, affondando le radici per esistere (e resistere) come individuo.

Coerentemente a questo significato, e quindi alla matrice univocamente monologale dell’essere “uno”, il complesso organico dell’opera si presenta stilisticamente compatto – quasi monolitico nel suo incedere, dilatato tra i versi liberi (talora ipermetri) inarcati del testo.

O meglio: nel suo versante formale la versificazione si svolge in una modalità completamente fisiologica alla sostanza che essa racchiude; il che sembra identificare una sorta di flusso interiore che fuoriesce per necessità dal poeta, ed ingloba gli elementi del mondo esterno, fagocitandoli per impastare così memorie ad accadimenti, realizzazioni e immaginazioni.

In effetti, potremmo desumere che l’unitarietà aspirata dalla poetica dell’autore sia realizzata in una narrazione monotematica, ma sarà piuttosto la realizzazione di un macro-insieme a strutturarsi e de-strutturarsi in tutta quella serie di epifenomeni che il verso incontra, travolgendoli solo per restituirli a vita nuova.

Contenutisticamente, sulla pagina del nostro si fondano almeno due tematiche iniziali, da cui squadrare una speculazione fondamentale: la prima, che realizza una campitura industriale di fondamento manifatturiero, chimico addirittura; e la seconda, per cui si materia un lirismo totalmente pregnante del verso, che più nudo si mostra nell’attesa disperata di un miracolo totalizzante.

Ma la tematica principale del testo arde nella frattura insanabile tra questi due fuochi: infatti la voce di Bellasio realizza senza remore una poesia che si sporge verso lo strapiombo dal vertice dell’irrealizzato, testimoniando il martirio della quotidianità; e sanguina la scollatura che solo può originare dalla presa di coscienza della conclusione dell’esistente, sottoposto alla signoria esclusiva della morte che si estende sopra ogni cosa, materiale e immateriale parimenti.

Il nostro consegna un’immagine dell’uomo che porta in petto il solco della fine iscritta ad ogni principio; e, quindi, di un soggetto che non può sottrarsi né allo scontro forzato con la materialità extra-corporea tecnica e tecnicizzata, né alla conseguenza metallica e siderale della stessa.

Tuttavia, dal contesto che restituisce il gelo e l’orrore della macchina, e quindi l’automaticità e dei prodotti di questa, la salvezza viene dal profondo dell’esperienza solitaria della vita, fino a spingersi all’approdo artistico del poeta.

Questo, non già come depositario di suggestioni e visioni, ma come vero e proprio genitore di universi, sembra recuperare la poiesis come ragione nobilitante della vita; forgiando così un lirismo che ricorda certe realtà francesi, introducendo un io completo (perché afferente a tutta la vita, formata dalle singole parti della stessa).

Questa postura lirica (che esiste in quanto tale e si giustifica in sé stessa) non solo si fa epicentro di una narrazione poetica, ma incastona e determina il fulcro attorno al quale si districa la vera e propria esperienza esistenziale declinata in versi; con la conseguenza (estrema certamente, ma assolutamente coerente al dettato) di instaurare un soggetto poetico prigioniero di sé stesso, condannato a non potersi separare dalla propria pelle.

Dal verso – di controcanto, o meglio contendendo la potenza creatrice – emerge un rapporto col divino tormentato e tormentante, da cui esala un senso di profonda mortificazione ed annichilimento della componente umana dell’esistenza, come fine che non conosce esizio.

Questo è il supplizio che sugella la tremenda natura della poetica di Bellasio; introducendo per non separarsene il concetto di poeta come creatura-nel-creato, e cioè dell’essente che è in quanto ontos, vincolandolo tuttavia all’esistenza “cellaria” che il titolo medesimo dell’opera chiama; e, perciò, al destino di essere isolato in una dimensione monastica, inesorabilmente conchiusa nel suo essere una, indivisibile da sé stessa e dal proprio vissuto.

*        *        *

RITORNANDO NELL’IMPATTO

Ritornando nell’impatto, si è trovati
violentemente, a volte, e si rimane
spiati a lungo su questi pianerottoli,
tra le fiale, in equilibrio sulle urla.
E quei bagni
ne hanno tremato anch’essi,
fra le ingiurie, riecheggianti.
Tutti gli altri
bussolotti morti, poi.
«Così, così ripetono –
ghermiti anch’essi – la stessa scena
raggelata, che non li disfa
ma li esige esatta – una
morte
adamantina, che anche io
non smetto di capire, cessando».
Qui, dove non c’è più tempo
e ogni cosa
avviene subito, bruciante,
ravvicinata – un
mattino che azzera il suo diametro
a bruciapelo, sparge
la cicatrice
della sua stessa pagina:

è
lunghissimo, colpirsi.

*

CLESSIDRA

«Una vena, spargendo all’improvviso
l’albume del proprio sangue in stasi,
divenne la parola, la grande
navata in cui il pensiero
scolpì il pensiero, bruciandolo.
Non si riebbe, neanch’esso,
mai più dal trauma, quella
fitta, altissima e
a forma di torre
piantata al centro
di sé, tra i soffitti dove
il vuoto ancora
aleggia sulle acque, con nevi immobili,
bicchieri, urina e gusci
in levitazione su di lui. Fu
l’assoluta
mancanza di ossigeno, l’aria
strappata
che dominava quelle altezze o forse
fu il peso
schiacciante che devasta, sulle cime,
il tempo – lì davvero
globo azzurro, densa, insostenibile
deità di asma… Fu
un movimento brusco
che lo ridestò da questa parte
della ferita, dove giunse solo – cavo
d’acciaio
per i tiranti della mente, bulbo
oculare e
vento sottile
planato con il suo silenzio sulla valle…
Non seppe, poi, mai più di sé,
riavvolto, all’improvviso,
nel nastro di acque oscure, scomparve
nel canneto, in una scia di limo
e minuscoli insetti
che lo riconobbero, chiamandolo per nome.
Al suo risveglio – raccontano i saggi –
apparisti tu».

*

DIAMANTE

 

Spariti a questi cieli
dove con il nostro niente andiamo
crivellati dagli spifferi, tra i cervelli in catastrofe
purissima, e ricevuta ad anni interi, a
settimane, davvero
puntate a strapiombo su di me: sono
lì anch’io – summa
geologica di un crollo
avvenuto da una parte sola, materia
abrasa, boreale e australe
volta disegnata
attraverso gli emisferi
distrutti ed innocenti…

 

Preme, da dentro,
con le sue macerie alte
il pensiero – sette lunghi colpi –
e tutto il paradiso
cade velocissimo, palesa
il suo tendaggio autentico, incendiandolo – una
parete, scomposta da migliaia
di lucciole. Trent’anni
si sono spenti…

 

Forse
siamo benedetti – forse
da qualche parte in noi
erba esiste, acqua
respira nelle mani, solleva le pinete
i cigni, le valli…

 

Inginocchiàti, sotto un lucernario
altissimo, e spinti
per sempre al suo cospetto
in frantumi sul creato,
gli alberi, la neve,
le rondini… i poeti,
porta fra i mondi.

*        *        *

Alessandro Bellasio è nato nel 1986 a Milano, dove vive. Laureato in Filosofia con una tesi su Martin Heidegger, ha compiuto i suoi studi tra l’Italia e la Germania. Ha tradotto dal tedesco per importanti editori. Suoi articoli e recensioni sono apparsi su riviste e blog letterari, tra cui Nuovi argomenti, La balena bianca, Poetarum silva, Compitu re vivi, Rai News Poesia. Nel 2017 ha pubblicato per l’editore LietoColle, all’interno della collana Gialla di Pordenonelegge, la raccolta di poesie Nel tempo e nell’urto, segnalata al premio Ponte di Legno Poesia 2018, vincitrice del Premio Internazionale di Letteratura Città di Como 2017 e del Premio di Poesia Città di Fiumicino 2017, sezione “Opera prima”. Suoi testi inediti sono stati premiati nel corso del festival Europa In Versi 2018 e inclusi nell’omonima antologia. Nel 2021 ha pubblicato Monade per L’arcolaio editore.

© Fotografia di Dino Ignani