Ci lascia Lorenzo Patàro, una delle voci più promettenti della giovane poesia italiana. Era un grande amico di Atelier, la sua morte prematura ci lascia sgomenti. Riproponiamo questi inediti, recentemente pubblicati sul n. 110 di Atelier cartaceo, che avrebbero dovuto essere il nucleo del suo nuovo libro, e che lui commentò così all’autrice della nota critico-introduttiva:
“Giovanna, che dire, la tua lettura come immaginavo coglie nel segno e non poteva che essere così. Mi piace il fil rouge che hai trovato con Amuleti perché in fondo questi testi sono un po’ il seguito di quel discorso e di quel corpo lí, tutti i riferimenti che hai colto e quello che scrivi di alcuni versi in particolare, del rapporto tra Amore e Morte, una polarità con cui non si può non fare i conti e che giustamente hai colto nelle mie poesie nuove, sono davvero contento di questa tua bella lettura e presentazione, 12 poesie sono un po’ un poemetto, considero questa uscita su Atelier davvero importante per un nuovo lavoro che sarà e qui è anticipato e non potevo chiedere che madrina migliore”.
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“Di una raccolta di componimenti in versi si può affermare che abbia raggiunto o toccato la poesia – che, nell’attuale moltitudine di versificatori, appare come un uccello assai raro – quando ci si trova dentro un’opera mossa da una sua necessità ed espressa con strumenti saldi e affinati. E gli strumenti non possono che essere quelli di una lingua posseduta e anzitutto sentita, e quelli di una visione di sé e del mondo che quel sé contiene e comprende”. Così Elio Pecora inizia la sua prefazione alla seconda raccolta poetica di Lorenzo Patàro, Amuleti, uscito nel 2022 e accolto con grande favore dalla critica, che, come Niccolò Nisivoccia sul Manifesto, ne rimarca la forza e maturità stilistica a dispetto della giovanissima età.
C’è una solennità e una pienezza nei versi di questo autore che sembrano senza tempo, incastonati in una dimensione naturale mitico-sacrale popolata di presenze animali emblematiche (i falchi, la faina, i vermi) nel farsi delle stagioni, e una sapienza nel dire che si manifesta nella naturalezza con cui affiorano echi letterari di autori evidentemente molto amati e molto frequentati, in primis Milo De Angelis per la cifrata verticalità dei versi e la potenza espressiva delle immagini, ricche di cortocircuiti sorprendenti, e Mario Benedetti per il tema pervasivo e ricorrente della morte, ma anche, e dichiaratamente, Mariella Mehr (“… ognuno con il ‘lupo nel suo/ sangue’, ‘ognuno incatenato alla sua ora’”) per una vena di selvatica quanto ineluttabile crudeltà che percorre la silloge qui presentata (“… la tua/barbara illusione che a ogni passo/il mondo si muoveva col tuo sguardo/di faina in fuga con la preda.”).
Ma non solo: un manifesto di poetica così compiuto come quello che esprime la decima poesia di questa serie (”Non vivremo così a lungo. Ci penso troppo/spesso, troppo spesso mi chiedo/dov’è il senso, se c’è un senso, /a quanto è grande questo mondo/in cui siamo solo schegge provvisorie, /…/mi chiedo se il mistero/è fuori dalla nostra comprensione, /se in fondo il morire è solo un passo/come un altro, un respiro che ti toglie/a questa terra e forse ti consegna/a un’altra vita che rinasce, in fondo/…) non può che essere il frutto di una profonda cultura letteraria pienamente assimilata e metabolizzata. Lo stesso vale per la consapevolezza esistenziale veicolata da questi testi, in cui la dimensione dell’umana sofferenza viene empaticamente espressa (ancora dal decimo componimento: “e chi taglia la corda alla sua vita/ha già smesso di vivere da tempo, /qualcosa si è rotto e nessuno/si è fermato a ripararlo, in fondo/nessuno sceglie il proprio male, /…). Come non pensare alla sezione dedicata ai suicidi di Linea intera, linea spezzata di De Angelis? Inoltre, qui come già in Amuleti, ricorre la parola “ferita”, ma altrettanto forte è l’impulso ad attraversare superandolo (più che a esorcizzare) il dolore attraverso il confronto (perché anche in questo caso non c’è sublimazione né facile effusività) amoroso. E dunque, attraverso la ricorsività del “nome” (un nome che è “una manciata di schegge, /all’aria, quando piove e noi non siamo/ che il capovolgimento, l’inversione delle cose/sotto il sole, che è nascosto ma ci vede,/ci scruta nel nostro ardore quieto,/proprio qui, consumati da un braciere/che ci leviga, scarnifica le ossa e ci fa pane,/ci macina più lievi, ci fa succo e nettare divino, /…/… e il tuo nome allora si fa fioco,/cura il fuoco dalle braci, è la gioia della fiera/ di paese, un canto che si staglia tra le urla,/qualcosa che fa i prati accarezzati, la brezza/che fa alzare la pelle e la assapora.” E ancora: “incontravo/il tuo nome in tutti gli alfabeti/della gioia, che nascevo ad ogni tua parola/come fossi un ponte/tra un silenzio/e la voce che lo spezza.”).
Il referente primario di queste poesie è indubbiamente il “tu” elettivo della persona amata, in un andamento dialogico ma sostanzialmente narrativo-considerativo, a volte interrogante, con un uso insistito dell’anafora a scandire il ritmo del verso, e della metafora e dell’analogia a sostanziarlo. Amore e morte sono le polarità della poesia di Patàro, che riesce a declinare due temi così universali e pervasivi della letteratura con una cifra del tutto personale e originale, cruda e potente, e se da un lato dominano le tonalità scure (“… la fame di quel morto era come un ansimare/qualcosa come un’onda che consuma/lo scoglio dove batte la sua furia.”), dall’altro Lorenzo Patàro ci regala una delle più belle poesie d’amore mai lette: “La tua bocca mi bacia ed è nido/in cui covo la ferita, mi aggrappo alla tua voce/che è sottile come un ago, mi arrampico/al tuo petto, percorro tutto il bosco in cui/cresce il tuo respiro…[…] poi mi perdo nell’oceano degli occhi, profondi misteriosi/e antichi come il fuoco, la tua bocca /mi bacia ed è il nido da cui volo verso il mare.”
Giovanna Rosadini
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Dodici poesie inedite di Lorenzo Pataro
L’estate era solo il gridare dei falchi nella sera.
Quel restare sospesi a mezz’aria con le bocche
ancora cariche di sete, la pelle che chiamava
il suo destino, un’era geologica sottratta ai buchi neri
e poi spuntava dalla legge della luce
una brughiera, la tua fine verde-rame
predetta lungo il fiume da una maga,
l’estate era solo un pretesto per volare,
le corse lungo i campi, il grano che sfilava
i suoi chicchi a lievitare nel tuo seno,
c’era tutto, ogni tanto qualcosa si levava
dalla nebbia, brillava fra le ossa rimaste
a sbriciolarsi nella terra, allora un canto-amico
chiamava quei morti a radunarsi
nella mente dei rimasti, li evocava tutti
insieme, con le loro pelli sconce, i loro teschi
lucenti e di ossidiana e ancora il falco,
il falco della sera, sorvolava ogni scheggia
nella mischia, guardava ogni capello, contava
ogni rosario, sgranava i pensieri rimasti
a germogliare con i vermi e poi spuntava
uno che diceva di avere ancora fame,
una fame tanto antica che nessuno riusciva
mai a colmare, ci provava, ci provava,
ma la fame di quel morto era come un ansimare
qualcosa come un’onda che consuma
lo scoglio dove batte la sua furia.
*
Era solo esercizio del guardare
la tua smania, il tuo corpo così mistico
d’estate, il suo odore nella vampa
quando tutto si sforma e il nucleo
della terra si avvicina alla tua
mano in attesa sulla porta,
era solo il tuo stare in equilibrio
sul distacco, strascicando con la coda
un addio come un segreto, in bella
vista ma innocuo nel suo stare,
era solo esercizio verso il fuoco
al centro della casa la tua gioia
che restava inconsumata, la tua
barbara illusione che a ogni passo
il mondo si muoveva col tuo sguardo
di faina in fuga con la preda.
*
Se brilli nella nebbia poi scompari.
Andare, poi restare. Io fluttuo
nella calma dopo il salto, nella luce
che fa piana la salita, se è bianca
la tua quiete, se vedi oltre la casa
la frontiera, allora getta in aria
le difese, getta tutto nel vortice
il tuo nome, fallo a pezzi, consegnalo
alla strage, dammi tutte le radure
della mano, il delta della schiena,
il punto dove termina l’ardore.
Andare, poi restare, io porto
a compimento il fluire della piena,
piantato dove cade la rugiada.
*
Le case, viste dall’alto, a perdita
d’occhio. Il tuo sonno plurale,
bambino, il tuo sonno antiquato,
ma ora lo vedo il cerchio nel grano,
il passo di neve nel tempo,
ora lo vedo il tuo numero cieco,
il vicolo stretto, il cerchio di pane
e il destino che scorre
nel sangue immobile al bacio,
mentre uomini in mare
ti guardano quieti e sospetti,
con l’ansia accerchiata di lame
e di agguati, in quel caldo animale
e domestico al tatto, una febbre
straniera e indifesa, quell’attesa
del canto che fa cavo il silenzio.
*
La pineta era a un metro di terra – il fondo
chiamava dal mare il tuo nome,
il volo era netto, pulito, un velo
di polvere e sale, poi tutto sbiadito
l’azzurro lasciava nel tempo il tempo
perduto, quel giorno che manca alla resa,
quel tuffo in cui sfuma ogni ardore
covato, quando tutte le spore
feconde allacciano i corpi
come i vermi per fare all’amore,
non c’era la luce, non c’era
la luce a calmare le ore
mancanti alla fine, cantavi,
cantavi di tutte le morti
di tutte le ere, ma adesso tu ridi,
dimentichi il nome
che hai dato ai tuoi spasmi, tu vivi
e io resto il tuo fossile ancora
il neonato insepolto che vuole soltanto
la gioia e poi niente, poi niente,
il dolore si incrosta di sabbia,
la pineta fa ombra a una piccola strage.
*
Era per quel tuo stare nella frenesia
dell’amore, poco prima del piacere, prima
della mano che modella il corpo e lo fa vaso,
che modella la pelle e la fa creta, con le crepe
in bella vista, era per quel tuo mancare ad ogni
attesa scolpita nella nebbia che fa tana
attorno all’ombra, di mattina, quando le bocche
hanno ancora la lama della notte tra le labbra
che hanno solo il desiderio di chi ha preso
tutto e vuole ancora un’altra parte, era per quella
tua stagione lieve, ancora tutta da scoprire,
quando tutto manca ancora
e tutto può avverarsi poco prima di lasciare
la presa dalla mano, era per ogni ulteriore
distanza colossale dalla stiva del tuo cuore
che arrancavo, che sgolavo la mia sete,
che facevo del fuoco una radura, che incontravo
il tuo nome in tutti gli alfabeti
della gioia, che nascevo ad ogni tua parola
come fossi un ponte tra un silenzio
e la voce che lo spezza.
*
Ma solo andare, ancora andare. Nel tuo
splendore di brina appena scesa.
Per il fuoco, per il fuoco tuo acceso
che fa nudo il cuore dei fantasmi,
fino al primo dolore ancora vivo,
ancora andare. Più a fondo, sempre andare.
C’è qualcosa che tiene sempre accesi,
qualcosa nel tuo occhio che dà luce
e cova il buio, un’ombra che fa tana
e fa il corpo planetario, lo lega a quelle ere
del cosmo perdute nella storia,
per questo ancora andare, solo questo,
ancora questo mi dice la parola
incastrata nel tuo nome, più a fondo
scolpisci il tuo oro nel mio nido,
per il fuoco, per la terra, per l’aria
che protegge il mio restare.
*
Dire il tuo nome è una manciata di schegge,
all’aria, quando piove e noi non siamo
che il capovolgimento, l’inversione delle cose
sotto il sole, che è nascosto ma ci vede,
ci scruta nel nostro ardore quieto,
proprio qui, consumati da un braciere
che ci leviga, scarnifica le ossa e ci fa pane,
ci macina più lievi, ci fa succo e nettare divino,
allora immaginiamo il rumore delle fate nella sera
quando tutto si scolora e si sgrana la ferita
e la cura la tua bocca che è cielo tra le stelle,
dove covi un segreto e lo riscaldi con la carne
che è aperta come un buco che accoglie la luce
del mattino e il tuo nome allora si fa fioco,
cura il fuoco dalle braci, è la gioia della fiera
di paese, un canto che si staglia tra le urla,
qualcosa che fa i prati accarezzati, la brezza
che fa alzare la pelle e la assapora.
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La tua bocca mi bacia ed è nido
in cui covo la ferita, mi aggrappo alla tua voce
che è sottile come un ago, mi arrampico
al tuo petto, percorro tutto il bosco in cui
cresce il tuo respiro, il legno che brucia
e mi disseta, mi dà aria che è buona
per il cuore, gli dà forma, lo contengo
sul palmo della mano, gli faccio
la guardia nottetempo, poi mi perdo
nell’oceano degli occhi, profondi misteriosi
e antichi come il fuoco, la tua bocca
mi bacia ed è il nido da cui volo verso il mare.
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Non vivremo così a lungo. Ci penso troppo
spesso, troppo spesso mi chiedo
dov’è il senso, se c’è un senso,
a quanto è grande questo mondo
in cui siamo solo schegge provvisorie,
transiti leggeri destinati a chissà cosa,
ci penso troppo spesso, alle morti
alla morte che arriva all’improvviso
quando tutto fa pensare che sia lunga
la salita, mi chiedo se il mistero
è fuori dalla nostra comprensione,
se in fondo il morire è solo un passo
come un altro, un respiro che ti toglie
a questa terra e forse ti consegna
a un’altra vita che rinasce, in fondo
nasciamo senza chiederlo nemmeno
e chi taglia la corda alla sua vita
ha già smesso di vivere da tempo,
qualcosa si è rotto e nessuno
si è fermato a ripararlo, in fondo
nessuno sceglie il proprio male,
in fondo non vivremo così a lungo,
tra cent’anni di noi non ci sarà
nemmeno l’ombra, ce ne andremo proprio
tutti, ce ne andremo come siamo venuti
qui per caso, ognuno con il “lupo nel suo
sangue”, “ognuno incatenato alla sua ora”.
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Oggi do inizio alla bufera, a quel taglio
della luce che fa chiara la mia ombra,
in simbiosi dentro il fiume faccio
scorrere le vene nella piena e sono un dio
che comanda questo scorrere
infinito, il viandare della polvere
sul fondo, la foglia che è caduta
con un battito animale e poi si è persa,
si è persa e ha disperso tutto il sangue,
tutti gli anni covati dentro il bene,
oggi do inizio alla bufera, spacco questo
frutto e ne mangio tutto il seme,
germoglio da una voce che mi chiama
giù nel fondo a infuturare la tua gioia,
la tua gioia che è adesso, proprio adesso
gioia piena gioia fitta di ogni nulla
*
Tutta la fame del mondo
accucciata in un uomo per mare
tra i vivi e i sommersi un incavo
un fiato sottile a dividere i corpi
piegati nel sonno…la barca continua
a viandare, poi qualcosa si inceppa
le anche si legano a un filo
che è l’ultimo abbraccio rimasto
il sangue è una veste per l’osso che brilla
il motore un pianto rappreso a singhiozzi.
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© Fotografia di Dino Ignani.