“Umorismo? Nel dolore? C’è pure un po’ di sale nelle lacrime.” – questo direbbe Marguette Yourcenar in Fuochi; e questo potrebbe essere il vero epicentro della versificazione dell’ultima fatica poetica di Corsi, “La perdita e il perdono” (PietreVive Editore, 2020).
Dissacrante nella sua scrittura, al limite del derisorio nel suo dettato, Corsi incarna completamente il giovenalesco “cantabit vacuus coram latrone viator” nel comporre scanzonato e irriverente di colui che, non possedendo nulla da perdere, nulla può avere da temere.
Ed in effetti potrebbe essere questo il punto che rende capace il dettato di squadrare l’agnizione di chi è irrimediabilmente inutile, e conseguentemente il poeta risulterà come colui sprovvisto, l’essere zoppo, e perciò il pariah – e quindi il poeta per eccellenza.
In questo luogo del negativo, l’io lirico risulta non altro che proprietario delle cose (quelle poche, oltre ogni istinto francescano plausibile) che ancora gli son concesse di poter avere: lo sguardo clinico – se non anche cinicamente inteso a riportare fatti e parole dell’avvicendarsi della realtà – e il sorriso di chi, non potendo avere, non può che per-donare.
Ne La perdita e il perdono, Corsi sembra concentrarsi nello spossessamento delle più necessarie coordinate esistenziali, ed in questo l’Autore conserva lo stigma della propria inabilità alla poesia ed al lirisimo – con quell’attitudine dell’incapace che verga la figura de l’inetto di Svevo – per cui e “l’autorità” e la “sacralità nell’atto” poetico non siano attributi confacenti alla scrittura poetica, e per tanto si abbassano all’altezza del reale – consegnata al lettore con tutta la miseria di cui la vita è in grado di coronarsi.
L’inetto, a tal proposito, si contrappone all’esteta per natura e per qualità; questo perché, nell’inadeguatezza della propria vita non può che scoprirsi inaderente alla stessa, e perciò non conserva né valori, né fini teleologici, né un ruolo nella società in cui riconoscersi.
Per certi versi, questa figura soffre della malattia che potremmo poi dire essere sfociata nel nocciolo più profondamente esistenzialista che è il disagio del ‘900, e perciò l’incapacità di provare sentimenti che non può che provocare nell’uomo un intenso alone di tristezza e di infelicità.
Per questo il poeta, nella disabilità inefficiente del proprio canto, si marchia della vergogna di non possedere né origine né destinazione; confermando così un non avere “né arte, né parte” piuttosto che ipotizzarsi come essere destinatario di una certa ars mystica – seppur dandosi come locus onnicomprensivo di chi avverte il responso quotidiano della propria apolidia, e la imputa alla propria esistenza, schernendosi.
E nulla si salva in effetti dal ludibrio che intesse il nostro; o meglio: nessuna cosa in quest’opera non può essere ridicolizzata proprio in forza alla risibilità che risiede nella cosa stessa, sia essa tragica – sia essa davvero comica per sé.
La posa classica ripudiata, come la sacralità della stessa, in risposta alla dinamica per cui il sacro risponda al facendo passando per la sessualità sembra protesa ad una nuova istituzione: un darsi in quanto fatto, piuttosto che in quanto atto-sacro, che corolla lo scempio quotidiano della realtà.
Deinde il lavoro, o meglio l’assenza dello stesso, e l’arrabattarsi alla bene e meglio fino alla fine della giornata è poi (tra le altre) la tematica che inscena il dissesto esistenziale dell’io lirico che, presumibilmente e alla lettura, si fonde alla persona (se non alla personalità) dell’autore.
Il soggetto poetante si vedrà quindi coinvolto più volte nel dialogo con il suo prossimo, e di queste conversazioni sarà l’interlocutore (per praticità: l’altro rispetto a chi scrive) il vero soggetto che definisce l’io poetico (il soggetto scrivente).
E sarà quest’atto riportato nella dinamica poetica sia la definizione della parola che la definizione del poeta; ma la verità è che sarà il concetto dell’osservazione del prossimo ed il contesto restituito a fornire quella circostanza da cui derivare il messaggio più profondo del messaggio-poesia.
Eppure, la tematica principe (principale, se si preferisce) di questo libro coagula attorno alla donna/alle donne: in questo, in effetti si può identificare l’acme della “tragicommedia” firmata Corsi.
Nell’opera, allo squallore quaresimale degli eventi rispondono esplosioni di teofanie femminili, “istmi tra seni” all’ombra della dialettica “dio cuore bellezza” – e quindi il verso sembra inteso ad una conferma della classica modalità di pensiero, pur anche abbozzando un misoteismo satiricamente riportato nella bestemmia del sacerdote, e nel “sadismo di dio in ogni cosa”.
Un po’ perché in effetti il monologo poetico non può che in ultima istanza confermare una tendenza lirica, un po’ perché di fatto nessun teatro si è mai visto fare senza attori, la poesia del Nostro sembra comunque pagare omaggio a chi non lo ha chiesto a monte – pur soffrendo della malattia terminale della marginalità dell’ arte poetica come opera sussidiaria alla vita, ed alle vite.
Così, concludendo, in Corsi assistiamo ad una poesia che incarna un’etica anti-eroica, a là Woody Allen, capace nella propria impreparazione (presunta) all’esistere una nonostante tutto di scoccare versi gnomici e sentenziosi che fan morire sui denti ogni possibile dialogo, come quando “L’infelicità è equa e previdente”.
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CONSUNTIVO: LIRISMO E POESIA
La notte è così triste
che qualcuno
si è messo a ridere.
Kenshin SUMITAKU
Dice un amico che quello che ho scritto
«È perfino umoristico»,
come se la poesia dovesse a forza
essere un funerale, oppure l’aria
d’un tenore ingrifato.
«Tu scherzi sempre?», chiedono.
Il recensore giovane mi respinge via mail:
«La poesia è cosa seria!» – me lo immagino
mentre lo proferisce,
indice e medio uniti verso l’alto.
L’ho capito a mie spese:
la lirica richiede atteggiamento.
Ricordi quando stavi per venire
(«Amore, amr, vengo, vng, vnnggghhhhh≫)
e io son scoppiato a ridere, smontandoti?
Per essere creduto, perché vada tutto liscio,
devi inscenare o credere sacralità nell’atto
(coito canto scrittura),
smarcarti per un poco
dall’assurdo, grottesco quotidiano.
Emanare una certa autorità.
A me proprio non riesce.
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UN DILETTANTE
(Caproniana)
Concedetemi, almeno, l’onore
di tenermi per persona educata:
vi rendo la Poesia
esattamente come,
anni fa, l’ho trovata.
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Gran parte dei poeti si rallegra che siamo marginali,
che la poesia non venda e, come una micosi,
asfittica si annidi nelle pieghe di un lavoro
(sul quale presto o tardi verrà sparso econazolo);
mentre invece io ne soffro, lo considero un dramma:
come finire a vivere per strada e bearsi
di non dover lavare il pavimento.
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KAVAFIANA CON COTTURA A 10’ A 200°
E se proprio non puoi la vita e la poesia che desideri,
gustale di nascosto come una pizza surgelata al salame piccante:
qualcosa di rapida chimica prosaica semipiena soddisfazione,
qualcosa che nelle ottobrate solitarie, tra il crepuscolo marino
e le partite di coppa, ti torni pratico e a genio
anche se va tenuto celato al naso arricciato dei puristi,
a stilose profumiere sempre in cerca del dettaglio di classe,
a questo mondo smanioso di accessoriare il nulla.
Non sprecare la vita nel troppo dilettevole commercio
con gli altri, nel cercare una recensione, una presentazione,
una leccata in più alla frigida scena letteraria, fino a far diventare te stesso
una cosa non tua: una fetta che qualcuno, distraendoti, ti sfila dal piatto.
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COSÌ COME SI LIBERA UN MANDALA
Un libro.
Dal libro una poesia.
Da essa uno, due versi,
poi più nulla.
11 settembre 2017
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Roberto R. Corsi (1970) ha scritto, dal 2007 a oggi, quattro libri di poesie (per ultimo: “La perdita e il perdono”, 2020), un ebook di annotazioni su vita e poesia (“La montagna pelagica”, 2022), un po’ di prefazioni, contributi e note di lettura. Ha curato l’edizione del volume di saggi Danteschi “Identificazione di un poeta”, di Massimo Seriacopi (2021). Per trovarlo basta cercarlo (compresa la R.) in rete o sui social, dove è ben disposto allo scambio di vedute sulla poesia.
© Fotografia di Laura Albano