Nello scorso numero [n. 11, settembre 1998] abbiamo espresso l’intenzione di percorrere un nuovo solco di ricerca e il primo passo sulla nuova via consiste nell’indagare sui fondamenti stessi dell’atto poetico.
Si può ancora parlare di estetica in epoca di nichilismo? La frammentazione del pensiero, producendo una molteplicità di esperienze artistiche, non ha forse determinato il primato della pratica sul pensiero? Come si vede, stiamo coinvolgendo questioni capitali; eppure non vogliamo sottrarci all’impegno e alla responsabilità di affrontarle. Non si tratta di questioni oziose delegate all’astuzia argomentativa di filosofi specializzati, perché, a nostro parere, oggi più che mai si rende necessario delineare il compito del poeta e del critico letterario e del loro modo di rapportarsi con la realtà contemporanea. Siamo convinti che per delineare in modo chiaro il problema occorre “fondare”, risalire ai princìpi, perché solo ponendosi in quel “luogo speculare” si può osservare, capire e valutare l’orizzonte dei problemi. In caso contrario di fronte ad opinioni divergenti si continuerà a scambiarsi inutili colpi al buio.
Il fatto che la letteratura contemporanea si dibatta tra le paludi dell’autoreferenzialità, da una parte, e dell’impegno contro l’istituzionalizzazione dell’arte, dall’altra, dipende da due modalità diverse di porsi di fronte alla «complessità» del mondo reale. Nel primo caso il poeta rinuncerebbe a incidere sul mondo, nel secondo caso la tensione morale indurrebbe a snaturare la specificità del fenomeno artistico. D’altronde uguali posizioni possono essere riscontrate nel settore della critica letteraria: accanto a una posizione che potremmo definire “ideologica”, tesa cioè a riaffermare una volontà di senso all’interno dell’opera, si pone l’analisi formale secondo cui il testo è solo uno «stupendo controllo razionale dei sistemi di organizzazione di segni» (Asor Rosa).
«Atelier» non ignora le difficoltà sottese a tali questioni e per questo, ricercando all’interno del pensiero filosofico contemporaneo le origini delle due posizioni, mira a proporre alcuni elementi di comprensione. La difficoltà consiste nel trovare il punto di contatto tra analisi formale e necessità ermeneutica, tra impegno e forma, il metodo, la giusta operatività, perché filosofia e poesia, filosofia e critica letteraria nel nostro secolo [XX secolo] hanno dialogato e stanno dialogando in modo completamente diverso dal passato.
Mario Luzi, la cui opera completa è stata recentemente [1998] pubblicata nei Meridiani, rappresenta un esempio eloquente, poiché viene considerato il massimo esponente di una poesia che non si può comprendere se si trascura la pregnanza filosofica presente fin dal suo nascere. Se, come egli sostiene, le veci della filosofia in questo secolo sono state sostenute dalla poesia, rimarrebbe aperto un campo di verità tutta da esplorare, soprattutto dopo l’heideggeriana morte della metafisica e la conseguente delega ai poeti di rivelare il poco rivelabile a cui l’uomo può giungere.
La poesia dovrebbe, quindi, sia pure in modo diverso dal passato sostituire la filosofia oppure si dovrebbe ricondurre i due settori ad àmbiti specifici? Come può la poesia avere ancora bisogno di un’estetica, se la filosofia non riesce neppure più a giustificare se stessa? In epoca di nichilismo è più produttivo tentare di restaurare posizioni pregresse o proclamare la “fine del lutto” e lavorare su tutte le risorse implicite nella condizione causata dalla fine della metafisica classica?
Il ricorso a un discorso fondazionale, dunque, potrebbe permettere un dialogo fra le “posizioni prime”, anche perché contro il rischio di risolvere la filosofia in poesia o, al contrario, la poesia in filosofia, al di là di ogni capziosa elucubrazione concettuale, esiste la realtà-uomo, la realtà-storia, la realtà-pensiero, da cui occorre partire e a cui occorre sempre tornare.
Giuliano Ladolfi