Francesco Dalessandro è nato nel 1948 a Cagnano Amiterno, in provincia dell’Aquila, e dal 1958 vive a Roma. Ha pubblicato i seguenti libri di poesia: I giorni dei santi di ghiaccio (Barbablù, 1983, con una nota di Elio Pecora); L’osservatorio (Caramanica, 1998, poi Moretti & Vitali, 2011, con note di Attilio Bertolucci e Gianfranco Palmery); Lezioni di respiro (Il Labirinto, 2003); La salvezza (Il Labirinto, 2006); Ore dorate (Il Labirinto, 2008); Aprile degli anni (Puntoacapo, 2010); Gli anni di cenere (La Luna, 2010, con un’incisione di Michela Sperindio), Primo maggio nel Pineto (Stamperia Il Bulino, 2012, con disegni di Silvia Stucky). Ha inoltre curato e pubblicato cinque libri di traduzioni: W. Stevens, Domenica mattina; E. Barrett Browning, Sonetti dal portoghese; G. Manley Hopkins, I sonetti terribili; G. G. Byron, Il sogno e altri pezzi domestici; J. Keats, Sull’indolenza e altre odi. Altre traduzioni, su rivista: dal latino (Giovenale, Orazio, Ligdamo e Sulpicia), dall’inglese (Shakespeare, Andrew Marvell, Isaac Rosenberg e Kenneth Rexroth) e dallo spagnolo (José María Alvarez, Francisco Chica, Ana Rossetti, David Pujante, Eloy Sanchez Rosillo, Pere Gimferrer). Nel 2012, ha ripubblicato, con Moretti & Vitali editori, una versione rivista e modificata de L’osservatorio, con una testimonianza di Attilio Bertolucci e il saggio, Il destino di ognuno, di Gianfranco Palmery. Cura il blog Poesie senza pari.
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MB – “Dove pini e cipressi incoronano la vetta e luminoso / l’Osservatorio al loro centro dominante / con l’oro delle cupole sul basso mondo / e le viventi sue stagioni ora si leva fermo / e fatidico emblema di sé, già il crepuscolo / si addensa”. Con questi versi si potrebbero definire le linee essenziali del tuo libro L’osservatorio (la cui ultima edizione è, per i tipi di Moretti & Vitali, del 2011); l’occhio-osservatorio come centro irradiatore di sguardi e al contempo come collettore di dati, la natura tutto intorno, le stagioni che si alternano (è stato notato come le quattro partizioni del testo corrispondano alle quattro stagioni metereologiche) e il “basso mondo” che, oltre a essere il titolo della seconda sezione (Stagione del basso mondo), rappresenta un determinato luogo, Roma. Attilio Bertolucci, nella sua nota al tuo libro, ha evidenziato come L’osservatorio non parla di altro che di Roma, e scorrendo il testo i nomi di San Pietro, Ponte Milvio, Villa Borghese, del Gemelli, del Pincio, di Monte Mario e così via si affollano sulla pagina. Si può parlare, per il tuo libro, di paesaggio urbano o Roma, più che personaggio principale, più che soggetto-non soggetto del quadro che il tuo libro dipinge, è lo sfondo di una promenade lunga il tempo della composizione del libro?
FD – Roma è tutto quello che tu dici e molto altro: è parte della mia vita ed è il cemento della mia poesia e l’Osservatorio ne è il centro (come dicono i versi che hai citato). L’osservatorio, il libro, lungo le varie sequenze, è lo specchio che riflette discese e ascese quotidiane; ma è anche lo sguardo mobile dell’osservatore, del poeta viator che prova (o indugia) ad indagare il senso della vita (e di se stesso). “La vita fluisce, come il sangue, come il traffico, con i suoi intoppi ingorghi accidenti, inquieta e inafferrabile; tutt’al più privilegiando ricorrenze, accadimenti”. Ripeto alcune parole della “Notizia” che chiude il libro, perché mi è difficile trovarne altre altrettanto chiare. La discesa mattutina negli inferni del traffico e di un lavoro straniante, e la faticosa risalita serale e notturna, la provvisoria riconquista di un fare e di un vivere che mondino l’anima (e la poesia) attraverso l’amore: ecco Roma, ecco l’erranza che si fa cammino e sua rappresentazione. (“Caminante, no hay camino, / se hace camino el andar”, scrive Machado). E la fisionomia del verso mima il camminare (come non solo in questo libro). La poesia ha l’ambizione di farsi camminando; ovvero, movimento e ritmo del verso riflettono l’andatura dei passi, la loro cadenza. Non si chiamavano “piedi” gli elementi del verso, nella metrica classica?
MB – Il tuo Figure d’ombra (puntoacapo 2018) sembra, per alcuni aspetti, continuare il discorso della poetica dell’io everyman che già Palmery aveva intravisto in L’osservatorio, un io poetico che narra il destino senza destino di Ognuno e che, proprio in questo, trova il suo destino. Il nome di Palmery non a caso torna in Figure d’ombra, che si presenta – con le tue parole – come dimostrazione dell’assunto palmeryano secondo cui «La vera idea atomica che disintegra l’io non è “io e un altro” bensì il suo inverso: “un altro è io”». Il tuo ultimo libro, visto anche dalla prospettiva dell’indice, sembra configurarsi come un’opera emblematica, un’opera di intarsio e di mosaico, che combina e collega frammenti altri dalla tua persona (si va dai papiri egiziani ai resoconti della prigionia di Campanella, dalle elegie di Sulpicia all’ekphrasis – tutta particolare – degli Sposi Arnolfini di Van Eyck, dal dialogo di Bernardo Bitti con la sua opera – un richiamo al luziano Simone Martini? – al diario apocrifo di Ruggero Laspro) in un’originalissima composizione. Proprio riguardo a questa centralità “teorica” di questo libro, vorrei chiederti quanto la (ormai descritta come decrepita) teoria della letteratura influisce nella tua poesia, se, cioè, il movimento poetico è innescato da una scintilla teorica o se la poesia provoca il pensiero teorico su di essa, oppure se sono due “sfere” che collaborano in un’unità organica.
FD – Teoria e pratica, si sa, non sono mai disgiunte, e dunque collaborano ad un’unità organica, come tu la chiami. Ma ho sempre diffidato e ancor più diffido della poesia che nasce per dimostrare una teoria poetica. Dico – e mi pare perfino banale – che la poetica va dedotta dal fare, cioè dalla poesia. Perciò suscita sospetto, in me, la “centralità teorica” che deduci dal richiamo alla frase di Palmery. Quelle parole spiegano bene il “sentimento” del libro, ma lo fanno a posteriori, al momento di esporre come esso è nato e che cos’è, così come richiesto dal direttore di collana, Giancarlo Pontiggia. Ma forse serve una premessa. Il libro di cui stiamo parlando comprende testi che tracciano l’intero mio percorso poetico, da Sul Nilo, un testo che risale alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso (naturalmente rivisto per la pubblicazione) a La fossa, i versi su Campanella, che è di pochi mesi prima dell’uscita del libro. Come si capisce, parliamo di oltre cinquant’anni di poesia. Nel corso di questo tempo, ho sempre, ripetutamente, a intervalli più o meno lunghi, avvertito la necessità di esprimere esperienze diverse dalla mia ascoltando le voci che venivano a parlarmi all’orecchio, voci di figure che uscite per breve tempo dall’ombra (imposte da una lettura, da una semplice notizia o anche da una suggestione, una fascinazione) mi chiedevano di accogliere e raccontare la loro storia, o il momento più significativo di essa; insomma, di trarle per un attimo da quell’ombra dove subito sarebbero tornate. Non so come riassumere meglio quest’urgenza. “Un altro è io” lo fa, succintamente, in modo chiaro e comprensibile. Non si tratta della “cerca” pirandelliana, o dell’invasamento pessoano, ma più di una via di mezzo fra il monologo drammatico di Browning e il monologo lirico di Kavafis. Rubando la definizione all’amico poeta spagnolo David Pujante (ma entrambi, in fin dei conti, debitori di Pound), li chiamerei “frammenti epici”.
MB – I pittori, lo abbiamo visto nell’ultima domanda, sono spesso citati nelle tue poesie. Più dei pittori, però, a fare capolino nei versi e nei paratesti delle tue opere sono i registi, le loro idee sulla formazione dell’immagine cinematografica; Bergman, Hitchcock, i personaggi de La finestra sul cortile vengono a essere evocati come veri e propri emblemi di una poetica che potremmo definire “di visione”. Non tanto una visione mistica o lisergica o allucinatoria, quanto uno sguardo che, fisso sulle cose, inanella frammenti visivi per costruire una narrazione quanto più possibile aderente a un’istanza di significazione (d’altronde, in esergo a L’osservatorio troviamo queste parole da La finestra sul cortile: “Raccontami quello che hai visto e che cosa potrebbe significare”). Più che aprire discorsi sull’annoso dibattito delle Arti Sorelle, sull’ut pictura poesis e sulla questione ecfrastica, mi piacerebbe sapere cosa ne pensi di questa frase di Tarkovskij sul montaggio e sulla funzione “poetica” di questo: “il mio compito professionale consist[e] nel creare il mio personale fluire del tempo, nel rendere nell’inquadratura la mia percezione del suo movimento – da quello pigro e sonnolento, a quello tumultuoso e impetuoso. A ognuno la cosa appare a modo suo, ognuno la vede a modo suo, ognuno ha le proprie fantasie…”[1]. Trovi dei punti in comune con la tua poetica?
FD – Certo che sì. Penso di essere perfettamente d’accordo con Tarkovskij (un regista che mi piace e del quale ho amato particolarmente due film: L’infanzia di Ivan e Andrei Rublev) e, del resto, il suo pensiero non mi pare si discosti molto dalla frase di Conrad posta in epigrafe alla seconda parte de L’osservatorio: “Il compito che mi spetta e che cerco di assolvere è di riuscire, col potere della parola scritta, a farvi udire, a farvi sentire – di riuscire, soprattutto, a farvi vedere”. Far percepire il ritmo del tempo, il suo fluire, è compito che spetta a chi scrive come a chi dipinge o costruisce storie per immagini. Amo i registi “visionari”, la cui visione non prescinde mai dall’accuratezza dell’immagine (e certo Tarkovskij è uno di essi), dal porre la massima attenzione nella costruzione di un’inquadratura, perché il film è fatto di fotogrammi ed è tramite il loro disporsi in sequenze che lo spettatore “sente” lo scorrere del tempo, e così, tramite la “visione” dell’autore, comprende la storia. Ecco spiegata la mia predilezione per Hitchcock e per Bergman che, pur così distanti per le tematiche, sono accomunati dalla straordinaria attenzione all’aspetto formale dell’opera.
La stessa cosa vale per la poesia, che è fatta di parole, le quali devono disporsi in un loro ordine naturale (che chiamiamo “verso”) per avere – e dare – un senso: il loro senso. Al fotogramma, insomma, corrisponde il verso, ovvero un’unità in sé fissa e precisa, ma che, in virtù della sua fissità e precisione, deve creare mobilità, movimento. Per me, la forma è il fondamento della poesia (come di ogni arte). Chi vuole allontanarsene, o chi crede che ormai vale solo la libertà del dire, la parola spontanea e senza mediazioni, credo che sbagli, e sbagli profondamente. Forse sarai d’accordo. Sebbene dicesse che la poesia deve nascere spontanea, come le foglie di un albero, Keats sapeva bene che la spontaneità è un lungo esercizio. E non voglio ripetere per l’ennesima volta quel che Eliot pensava circa la libertà di chi vuol fare un buon lavoro, ma credo fermamente che la libertà nasca dalla disciplina. Anche in poesia, come scrisse Georgij Plechanov, il cosiddetto padre del marxismo russo, la “libertà è coscienza della necessità”.
Facendo un passo indietro, alla premessa da cui parte la tua domanda… Certo che la mia poesia nasce da un atto di visione: lo dico molto chiaramente nella “Notizia” che chiude L’osservatorio, ed è sempre così. Ma – permettimi di ribadirlo con forza – la mia visione è fisica (e laica, se m’intendi); ovvero, niente a che spartire con allucinazioni mistiche o d’altro genere. L’atto di visione nasce camminando ed è fatalmente influenzato dall’esperienza e dai sentimenti, così come dai desideri (secondo che ci affiggono i desiri, appunto, come recita il verso di Dante messo in epigrafe alla prima parte del libro). E la poesia stessa si fa camminando, come ho già detto: “pedibus claudere verba” scrive Orazio. Tu stesso hai parlato di promenade, nella prima domanda. E ora ti dico di più: Camminando è il titolo del mio prossimo libro.
MB – Ho notato come, nei due libri di cui stiamo parlando in questa intervista, l’aura dantesca che a volte si percepisce (a parte un paio di casi in cui citazioni come “natural burella” ci riportano all’Inferno) è prevalentemente purgatoriale. “Dovrò salire / e scendere ancora le scale di questo tetro purgatorio / faticando e penando senza l’angelo di dio / che mi segni la fronte…”, si legge nel penultimo testo de L’osservatorio; le quattro sezioni dello stesso libro sono introdotte tutte da una citazione dal Purgatorio, in particolare dai canti centrali, con una escursione fino al XXV, dunque i canti più “teorici” della cantica. Figure d’ombra è anch’esso introdotto da una citazione dal XXI del Purgatorio. La tematica del libero arbitrio che lì viene esplicata, insieme alla generazione dell’anima e alla sua incarnazione, ha avuto un ruolo particolare per la scelta di queste specifiche citazioni? Ritorna la commistione fra “teoria” e “poesia” cui avevo accennato in precedenza?
FD – La suggestione dantesca è costante, nella mia poesia. In generale, tuttavia, le epigrafi che scelgo non rinviano quasi mai all’argomento o alla situazione dell’opera da cui sono tratte, ma dovrebbero servire per indirizzare il mio lettore. Ciò vale anche in questo caso. Certo, la predilezione per il Purgatorio c’è, ma non è dovuta a motivi ideologici o religiosi. Potrei proporti, per giustificare la scelta, le parole di Orazio: “virtus est medium” e non sarei lontano dalla verità. Provo a spiegarmi. Credo che, prima di tutto, il Purgatorio sia la cantica dell’umanità ferita; quella che meglio rappresenta la complessità dell’animo umano, la sua piccolezza, la sua fragilità; qui, il viandante poeta non è solo spettatore, ma partecipa attivamente al riscatto e al “pentimento”. Il Purgatorio è una cantica primaverile, dove si narra la possibilità per l’anima umana di rifiorire a nuova vita, dove il tempo è ancora presente, perché in transito; è la cantica della memoria e del desiderio: i penitenti nulla dimenticano ma insieme guardano in prospettiva, hanno lo sguardo desiderante. Dal punto di vista formale, del Purgatorio mi attrae la medietà stilistica e figurativa; c’è in essa un’armonia sottile che è impensabile trovare nell’Inferno, e, per altri aspetti, nel Paradiso. Anche il paesaggio è naturale, terrestre, riflette l’uomo e il poeta quale viandante, la sua interiorità, le sue pene, il suo orizzonte. Ma anche le sue aspirazioni di poeta consapevole, responsabile. Non è un caso, poi, che i canti centrali che tu citi siano quelli in cui Dante poeta incontra e introduce i poeti del suo tempo (salvo l’assenza dolorosa di Guido, che genera rammarico e sensi di colpa dovuti alla condanna prospettica inflittagli nell’Inferno).
Permettimi, a questo punto, una breve digressione sul rapporto fra Orazio (altro poeta che amo), visto che l’ho citato, e Dante. Mi spiace sottolineare come, in rapporto a Dante, Orazio venga così poco nominato. E invece io credo che la sua lezione, con le riflessioni circa l’etica che deve sorreggere e accompagnare il fare poetico, come espressa nella cosiddetta Ars poetica, fosse ben presente alla mente di Dante quando decise di rinnegare la meravigliosa (dal punto di vista poetico, s’intende) esperienza delle “rime petrose” per dedicarsi interamente all’impresa della Commedia.
Ho una predilezione per le “petrose” (che avevano l’antecedente, si sa, nella poesia provenzale e, in particolare, in quella di Arnaut Daniel, uno dei poeti incontrati nel Purgatorio), perché rappresentano quanto di meglio Dante scrisse prima della Commedia. Eppure, alla luce posteriore del poema, egli sembra considerarle un peccato d’orgoglio: il peccato letterario, ovviamente, del gioco formale spinto all’eccesso e di un parlare “aspr’e sottile” di difficile comprensione. Mi domando se, dunque, non fosse questa la “selva oscura” (selva è metafora classica del fare poetico); e se la “diritta via” che Dante aveva smarrito non fosse quella di un contenuto etico della poesia. Un contenuto che non fosse solo raffinatezza formale, ma che permeasse la forma. Era questo che mancava alle “petrose”? Là era lo scacco?
MB – “Sandro, vorrei che tu Bordini e io / fossimo insieme testimoni del passaggio…” restando in territorio dantesco, questi versi de L’osservatorio richiamano il sonetto “Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io”, con tutte le implicazioni di amicizia e di “scuola” che ne conseguono. Potresti parlare dell’esperienza di “Arsenale” che, mi pare, sia alla base di questi versi?
FD – In verità, no, la base di quei versi – lampante calco dantesco – non è legata all’esperienza di “Arsenale”, nella quale l’amico Bordini (scomparso di recente per complicanze legate al covid) non è mai entrato. Ricci (il Sandro del verso), sì. Fu uno dei più attivi nella fondazione della rivista, sebbene, poi, ne volle uscire, per entrare – anche lì, per poco – nella redazione, allora in via di definizione, di “Pagine”. (Ma Ricci era così e sarebbe troppo lungo spiegarne la personalità, in questa sede). L’amicizia fra me, lui e Carlo Bordini è precedente ed estranea alla rivista. Né fu mai questione di “scuola”, tanto sono diverse le nostre esperienze e le nostre poetiche; o, meglio, la nostra poesia. Tanto diverse che, per esempio, a Bordini, non tutta la mia poesia piaceva; e ancor meno gli piaceva quella di Ricci. La mia la riteneva troppo colta (in una breve recensione a La salvezza scrisse che io ero “un magnifico poeta di altri tempi che non si è ancora deciso ad aderire ai ritmi spezzati di questa epoca, che non ha ancora deciso – e forse non lo deciderà mai – se scrivere o non scrivere versi in volgare”); quella di Ricci troppo classica. Anche la sua, a me e a Ricci, piaceva in parte. Io trovo bello e intenso il suo poemetto Strategia, ripubblicato appena prima della sua scomparsa; molto meno mi piace Mangiare (che è considerato da alcuni una delle sue opere migliori). Ma, insomma, l’amicizia è tutt’altra cosa.
Invece, per tornare ad “Arsenale”, il cui numero zero uscì nell’ottobre del 1984, dopo una lunga gestazione, fatta di incontri e di messe a punto del programma, la prima idea della rivista era stata di Luigi Amendola e mia e risaliva al 1982, anno in cui curammo una rassegna di poesia alla quale parteciparono quasi tutti i migliori giovani poeti del momento. Ma la nostra ambizione era quella di fare una rivista e ci volle del tempo prima di provare a realizzarla. Ne parlammo con gli amici poeti Alessandro Ricci e Gianfranco Palmery e si decise di provarci. Poi, con Palmery, che della rivista sarebbe stato il direttore e l’animatore, coinvolgemmo altri: Giovanna Sicari, Valerio Magrelli, Giuseppe Saltini, Italo Benedetti. Intanto, Amendola, che ne era stato il principale propulsore, per un malinteso abbandonò il progetto (e fondò un’altra rivista, “Versicolori”).
Superate le difficoltà maggiori – che, com’è ovvio, erano di natura economica –, cominciammo a ragionare sull’indirizzo da dare al nostro lavoro. In quegli anni uscivano altre due riviste: “Braci”, che stava esaurendo la sua esperienza, e “Prato pagano”. Le tre riviste qualcosa in comune l’avevano; per esempio, la volontà di superare certo modo di fare poesia e un’attenzione rinnovata e nuova per la lingua. La differenza, semmai, era – o così mi sembra – che “Braci” e “Prato pagano”, quella lingua la cercassero, quasi fosse persa, e volessero ritrovarla nell’“antico”. Per noi di “Arsenale” – che, a parte Magrelli (il quale, non a caso, collaborò attivamente anche con “Prato pagano”), eravamo meno giovani e forse avevamo meno entusiasmi ma più consapevolezza – la lingua era là, bastava liberarla dalle scorie avanguardistiche e politiche per farne di nuovo strumento privilegiato di lavoro e di conoscenza. Insomma, mi pare che “Arsenale” fosse meno naïf, piuttosto tradizionale, ovvero più luogo di confronto con la tradizione e con le tendenze della contemporaneità; ma l’ideale di conoscenza attraverso la poesia era lo stesso; come anche la volontà, per esempio, di ristabilire rapporti fruttuosi con le arti figurative.
Andammo avanti per dodici numeri, poi la stanchezza di alcuni e la sazietà di altri (sommate ai problemi economici) misero fine alla bella esperienza.