Alessandro Moscè “La vestaglia del padre“(Aragno 2019)
Lettura a cura di Davide Tartaglia
C’è una bellezza senza tempo dentro il tempo. Una bellezza che ci ha raggiunto, che ci ha sfiorato anche solo per un attimo e che ci ha ferito irrimediabilmente. Prima di andarsene. E cosa ne rimane? L’imprendibile gioia che abita il ricordo è destinata a rimanere in un mondo lontano oppure l’istante, la vita presente in qualche modo ne partecipa?
Sono queste le domande aperte dalla lettura de La vestaglia del padre, ultimo libro di Alessandro Moscè, dato alle stampe da Aragno editore; un libro evidentemente segnato dalla morte del padre del poeta fabrianese, e che trova in questa occasione il punto di abbrivo, il magma incandescente che giustifica la scrittura ma senza esaurirsi nei confini della vicenda privata. Ciò che a tema sono le domande ultime sulla morte (e quindi sulla vita), sul senso di ciò che ci lascia e quindi di ciò che rimane. Moscè conduce questo escavo attraverso una scrittura piana, senza scossoni, muovendosi in un territorio pienamente anti-novecentesco, mantenendo il ritmo ondulato e pacificato delle colline marchigiane, sul confine con la prosa. Ciò che colpisce è la capacità con cui una scrittura così apparentemente orizzontale, attaccata alle cose e alla ferialità, non rimanga mai a mezz’aria ma scatti improvvisamente verso l’alto o verso l’abisso. Una scrittura che appena sotto la superficie di questo moto ondoso cova un’energia tellurica che squarcia. Nell’elaborazione del lutto e dell’assenza, Alessandro Moscè ci fa sapere che i cuori non inceneriscono / come le ossa dei defunti, c’è un punto irriducibile dell’uomo che non evapora, che il tempo e le circostanze non sono capaci di sottomettere, ed è il “cuore”. Il cuore che non è pura e vaga emozionalità, ma “cuore” inteso in senso biblico, cioè quello strumento con il quale l’uomo, gettato dentro la realtà, giudica tutto e (ri)conosce; quel battito residuale che in mezzo all’annichilimento e al dolore senza rimedio per la perdita è capace di percepire dove la vita vibra ancora e parla, non credendo che il nulla sia nulla.
Perché il prodigio della poesia di Moscè sta tutto nel fatto che nel volerci parlare di un’assenza – quella di suo padre, che è anche perdita “del padre”, tema attualissimo dei nostri anni – in realtà non fa che richiamare sulla pagina una presenza, in un fitto memoriale in cui le cose – la vestaglia, la giacca, la borsa dell’acqua calda, il cuscino – in qualche modo riportano in vita ciò che ci ha lasciato, il ricordo che abita il “senza tempo” (questo il titolo della prima sezione). Senza tempo è certo ciò che sfugge al “qui e ora” e che ci abbandona, ma è anche paradossalmente ciò che è salvato alla dittatura del tempo e dunque che rimane, che si fissa oltre le cose (siamo irraggiungibili come i ladri già scappati / ma nessuno sa che l’amore / contiene lo stupore della gravità / che riporta ancora qui). Il libro è percorso e percosso da questa conflittualità sotto traccia: una vacuità senza scampo ma che anela e chiede continuamente di essere riempita, vuoto versus pieno, che in realtà si rivelano essere due realtà inscindibili ed ontologicamente intrecciate. Nel denunciare una sottrazione – che è la morte – si apre uno squarcio che grida e conserva la memoria dello strappo, che è – forse – la forma più tenace del rimanere, è la cavità che permette al fiato di farsi voce, parola, ricerca di senso (bisogno dei vivi tra i vivi).
Dalla ferialità si staccano in primo piano i ricordi lucidi, che dalla prospettiva del distacco assumono una luce nuova, i contorni di uno spazio-tempo idilliaco ormai sommerso, una sorta di eden escluso dalla contraddizione, in cui tutto era unito. L’amore per la Lazio ed il calcio – un calcio anch’esso ormai scomparso, fatto di stadi strapieni, che riempiva le domeniche degli italiani del boom economico – è il nodo simbolico di un legame inscindibile tra padre e figlio, di questo tempo che sembrava inattaccabile, un tempo di bandiere e di infanzia / di cori e di gioia avvampata nel prato scintillante.
Ma in realtà l’occasione particolare legata alla vicenda biografica del poeta e che dà voce alla poesia, attraverso la poesia si spalanca e assume un respiro universale, che riguarda il nostro tempo e l’uomo in quanto tale: dove approda ciò che ci lascia? E che ruolo può avere per il presente, la poesia e quindi la memoria? La figura di un padre che muore diventa il simbolo di un secolo che ci abbandona con le sue ferite ed il suo immaginario (la dolce vita felliniana, la Roma immensa degli anni settanta dai tramonti interminabili), un secolo con il quale è praticamente impossibile una pacificazione, ma torna ad interrogarci e chiedere insistentemente un senso, un posto nella storia personale e collettiva.
Seguono poi altre quattro sezioni, quattro tempi (stazioni, visite, degenza, follia), che rientrano nel tempo, dentro il presente, che sono quasi un tentativo di sfida alla storia, un’indagine, una tensione dell’occhio e dell’orecchio per verificare se nelle pieghe della realtà può riaffacciarsi il senza tempo. In “stazioni” la poesia si fissa su degli istanti, delle persone, su situazioni ed oggetti feriali, apparentemente banali, quasi a volerli salvare e strappare dalla ghigliottina del tempo per fissarli in un altrove. La stazione è il non luogo per eccellenza, in cui il respiro della città rallenta fino ad accordarsi ad un altro ritmo – quello di altri mondi, quello degli incroci di fughe e partenze – e dove è possibile dunque che si apra un varco un passaggio, in cui l’occhio più facilmente è aiutato a bucare la barriera della superficie, dell’hic et nunc. Nel secondo tempo “visite” assistiamo invece a un movimento in senso inverso (dall’oltre al qui) con incursioni dal passato, dal sogno o dal regno dei morti, in questo intrecciarsi continuo del visibile e dell’invisibile, come se la poesia nel suo planare leggero e “commosso” sia in fondo una supplica alla realtà che riveli il suo segreto, il segreto montaliano. Un segreto che abita anche la realtà angosciante e apparentemente senza scampo della degenza ospedaliera e psichiatrica delle ultime due sezioni. E qui l’occhio del poeta si fa indulgente, vastissimo, come un porto di cui si non si vedono i confini, delle larghe braccia appoggiate sul mare in cui attraccano le storie di solitudine e dolore di vite appena incrociate. Storie reali o immaginarie, che intersecano o lambiscono appena l’io del poeta, il quale naufraga in un noi, in un unico grande coro di dannati che chiede riscatto.
E alla follia – come scarto da ciò che è misurabile, da ciò che percepiamo immediatamente come comprensibile – è affidata la parola definitiva attraverso il diario di una poetessa dell’istituto psichiatrico: È vero che amiamo chi non c’è più / come la prima volta / non durante l’abbraccio / ma dopo che se ne è andato?
Ed è forse proprio questo ciò che rimane di un padre che ci lascia, di una bellezza che se ne va; è la pacificazione di un amore che supera il possesso, di un abbraccio che non stringe a sé ma lascia che tutto sia al suo destino. Questo è lo sguardo che abita la poesia di Alessandro Moscè.
Perché il prodigio della poesia di Moscè sta tutto nel fatto che nel volerci parlare di un’assenza – quella di suo padre, che è anche perdita “del padre”, tema attualissimo dei nostri anni – in realtà non fa che richiamare sulla pagina una presenza, in un fitto memoriale in cui le cose – la vestaglia, la giacca, la borsa dell’acqua calda, il cuscino – in qualche modo riportano in vita ciò che ci ha lasciato, il ricordo che abita il “senza tempo” (questo il titolo della prima sezione). Senza tempo è certo ciò che sfugge al “qui e ora” e che ci abbandona, ma è anche paradossalmente ciò che è salvato alla dittatura del tempo e dunque che rimane, che si fissa oltre le cose (siamo irraggiungibili come i ladri già scappati / ma nessuno sa che l’amore / contiene lo stupore della gravità / che riporta ancora qui). Il libro è percorso e percosso da questa conflittualità sotto traccia: una vacuità senza scampo ma che anela e chiede continuamente di essere riempita, vuoto versus pieno, che in realtà si rivelano essere due realtà inscindibili ed ontologicamente intrecciate. Nel denunciare una sottrazione – che è la morte – si apre uno squarcio che grida e conserva la memoria dello strappo, che è – forse – la forma più tenace del rimanere, è la cavità che permette al fiato di farsi voce, parola, ricerca di senso (bisogno dei vivi tra i vivi).
Dalla ferialità si staccano in primo piano i ricordi lucidi, che dalla prospettiva del distacco assumono una luce nuova, i contorni di uno spazio-tempo idilliaco ormai sommerso, una sorta di eden escluso dalla contraddizione, in cui tutto era unito. L’amore per la Lazio ed il calcio – un calcio anch’esso ormai scomparso, fatto di stadi strapieni, che riempiva le domeniche degli italiani del boom economico – è il nodo simbolico di un legame inscindibile tra padre e figlio, di questo tempo che sembrava inattaccabile, un tempo di bandiere e di infanzia / di cori e di gioia avvampata nel prato scintillante.
Ma in realtà l’occasione particolare legata alla vicenda biografica del poeta e che dà voce alla poesia, attraverso la poesia si spalanca e assume un respiro universale, che riguarda il nostro tempo e l’uomo in quanto tale: dove approda ciò che ci lascia? E che ruolo può avere per il presente, la poesia e quindi la memoria? La figura di un padre che muore diventa il simbolo di un secolo che ci abbandona con le sue ferite ed il suo immaginario (la dolce vita felliniana, la Roma immensa degli anni settanta dai tramonti interminabili), un secolo con il quale è praticamente impossibile una pacificazione, ma torna ad interrogarci e chiedere insistentemente un senso, un posto nella storia personale e collettiva.
Seguono poi altre quattro sezioni, quattro tempi (stazioni, visite, degenza, follia), che rientrano nel tempo, dentro il presente, che sono quasi un tentativo di sfida alla storia, un’indagine, una tensione dell’occhio e dell’orecchio per verificare se nelle pieghe della realtà può riaffacciarsi il senza tempo. In “stazioni” la poesia si fissa su degli istanti, delle persone, su situazioni ed oggetti feriali, apparentemente banali, quasi a volerli salvare e strappare dalla ghigliottina del tempo per fissarli in un altrove. La stazione è il non luogo per eccellenza, in cui il respiro della città rallenta fino ad accordarsi ad un altro ritmo – quello di altri mondi, quello degli incroci di fughe e partenze – e dove è possibile dunque che si apra un varco un passaggio, in cui l’occhio più facilmente è aiutato a bucare la barriera della superficie, dell’hic et nunc. Nel secondo tempo “visite” assistiamo invece a un movimento in senso inverso (dall’oltre al qui) con incursioni dal passato, dal sogno o dal regno dei morti, in questo intrecciarsi continuo del visibile e dell’invisibile, come se la poesia nel suo planare leggero e “commosso” sia in fondo una supplica alla realtà che riveli il suo segreto, il segreto montaliano. Un segreto che abita anche la realtà angosciante e apparentemente senza scampo della degenza ospedaliera e psichiatrica delle ultime due sezioni. E qui l’occhio del poeta si fa indulgente, vastissimo, come un porto di cui si non si vedono i confini, delle larghe braccia appoggiate sul mare in cui attraccano le storie di solitudine e dolore di vite appena incrociate. Storie reali o immaginarie, che intersecano o lambiscono appena l’io del poeta, il quale naufraga in un noi, in un unico grande coro di dannati che chiede riscatto.
E alla follia – come scarto da ciò che è misurabile, da ciò che percepiamo immediatamente come comprensibile – è affidata la parola definitiva attraverso il diario di una poetessa dell’istituto psichiatrico: È vero che amiamo chi non c’è più / come la prima volta / non durante l’abbraccio / ma dopo che se ne è andato?
Ed è forse proprio questo ciò che rimane di un padre che ci lascia, di una bellezza che se ne va; è la pacificazione di un amore che supera il possesso, di un abbraccio che non stringe a sé ma lascia che tutto sia al suo destino. Questo è lo sguardo che abita la poesia di Alessandro Moscè.