Sulla poesia di Giovanni Ibello: Amin e la prospettiva del “martire eletto”. Di Giuseppe Martella
Come Turbative Siderali, che ho recensito a suo tempo , questi Dialoghi con Amin di Giovanni Ibello mettono in scena perentoriamente la nuda vita che si fa parola, “la nudità è dei corpi”, su uno scenario cosmico in dissolvenza “una lenta recessione delle stelle” e nel tempo che viene meno “non c’è più tempo, non c’è tempo” (Turbative Siderali: 6, 9, 10). Ma se per quella prima raccolta parlavo di polifonia e insistevo sulla metafora musicale, qui il dialogo si fa più stretto, stringente, apparentemente monodico; più schematico e preciso il faccia a faccia tra la maschera e il coro; più asciutto e minimalista, lo scenario. Fuori tempo – come una tragedia greca in miniatura, che ha già assorbito e ridotto all’osso tutta la polifonia del mito del giovane predestinato alla morte, e a una resurrezione stagionale per amore della Terra-Madre. Tammuz-Attis-Adonis paredro (servo e amante) di Istar-Cibele-Demetra, grande dea mediterranea della vegetazione, madre-terra-sposa, il cui grembo violentato e reso sterile dalla tracotanza umana, non può più procreare a tempo debito.
Gli echi della Terra Desolata di T.S. Eliot attraversano infatti questi Dialoghi con Amin ma anch’essi sono ora annichiliti in questo piccolo buco nero di infinita massa, che assorbe tutto il lavoro del mito, il caleidoscopio delle sue figure, il sangue delle sue varianti. Quella che risulta rappresa e prosciugata è infatti qui anzitutto la secolare eredità del mito, il seme della cultura mesopotamica, mediterranea e occidentale. Ridotta qui a un asciutto dramma pronominale dove un io poetico sovra-storico (egli stesso un Kurios, un giovane semidio sacrificando: Dioniso, Adone, Orfeo) si rivolge a un tu speculare, Amin, il suo alter ego caduto nella post-storia attuale – nell’anomia del tempo. E la “lei” appena accennata, può ben essere la Kore, Persefone, la giovane dea della rigenerazione stagionale, custodita nel grembo della terra madre, che si rivela nel suo stadio terminale, in dissolvenza alla fine del dramma. E poi c’è quel “noi” che “ci lega la parola feroce,/ una giostra di penombre”, una confraternita misterico-insurrezionale che accenna a un corale appena intonato, a una in/consapevole, eccentrica complicità destinale. Come la firma in calce del contratto epocale, patto di sangue e di specie, che lega Adone (votato alla morte e alla resurrezione muta in forma di fiore) al suo doppio rovesciato, Amin, già sempre ferito e gettato nell’aperto, fuori dal ciclo delle stagioni, destinato all’insurrezione urlata e forse al martirio (nell’“l’esatto perimetro di un grido”, “anemone del giorno /divelto sopra i silos.”)
Perché come già in T.S. Eliot ma in modo più scarno e rappreso, quasi in uno spasmo formale, qui è la variazione drastica di distanze e prospettive, la concentrazione vertiginosa del punto di vista anonimo sul suo oggetto nomade, unita alla sperimentata perentorietà della voce, a caricare di gravità il campo indeterminato dell’azione e di incandescenza i frammenti di senso che ci investono dall’orizzonte degli eventi, da quel minimo margine di gioco fra la maschera e il coro, dove questa miniatura tragica vira verso la contrazione dell’oracolo. Così “l’orgasmo neuronale”, l’implosione “del corpo che ritorna seme” di Turbative siderali, assumono ora la precisa valenza di un sussulto tellurico planetario. Con un terribile, ominoso seppellimento delle varianti tonali nel dialogo monodico che prelude al silenzio: fra la domanda cruciale: “Quanti millimetri ci separano dal buio? E l’epifania finale in dissolvenza: “ogni cosa si annuncia solo mentre si sfigura”.
Giunti a questo punto terminale, margine del testo e orlo dell’abisso, il libro precedente, Turbative siderali, che avevo paragonato a uno Stabat Mater, si può ora rileggere, nella prospettiva del martire eletto, come un preludio dell’Apocalisse.
Il luogo del dramma è, come recita il titolo della prima sezione, quello anonimo del frammento, della parte “male-detta” che cerca di integrarsi in un intero di senso, che sia consenso o coro, a seconda di come si voglia collocare la voce impersonale che recita ai margini del gioco delle parti che qui viene accennato nello schema onirico di un dialogo deterritorializzato o meglio collocato in partenza fra mappa e territorio, fra parola e azione, fra storia e mito. Che lo si voglia attribuire al corale danzante di una tragedia apolitica o prepolitica appunto, oppure a un singolo attore in scena che fa risuonare la propria voce nel cavo di una maschera per moltiplicarne l’eco affinché raggiunga l’orecchio di ascoltatori assenti o distratti, a loro volta fuori campo, come fluttuanti sulla cornice dell’evento. Da come insomma si voglia distribuire il dentro e il fuori di questa scena iniziatica, archetipica, da dove si voglia scorgere la piega degli eventi custodita nella curvatura dei versi. Perché qui a venire in questione è proprio il senso del dia-logo, della contrazione e scissione del logos al suo interno ad opera delle ambiguità di senso introdotte dal verso, dalla minima svolta nel respiro dell’io lirico che in un presente a tempo sospeso si rivolge a un tu speculare, in quella tenzone mobile o caccia primordiale di cui la poesia si nutre, e che trova un esempio mirabile da noi nell’ultimo Caproni. E non per caso evochiamo archetipi, perché qui il tempo è mitico, come subito risulta dalla menzione di Adonis (nome semitico del Signore) come martire di questa terra rivoltata, madrepatria o dimora (Heimat) all’inizio di un dramma eversivo nelle pieghe del quotidiano-perturbante (Unheimlich). Già si afferra dall’inizio, dunque, tutta la densità di rimandi che fa di questo fall-out atomico della parola dell’io poetico, supposto Signore del proprio discorso, un corpo evirato, una maschera della mancanza che si rivolge al proprio doppio speculare, Amin, interlocutore reietto e residuale, votato già sempre al sacrificio.
Mettiamoci dunque in ascolto e in sintonia, acustica e visiva, perché, ricordiamolo, per quanto i versi di Ibello possiedano un ritmo e una cadenza ben precisi, la sua è essenzialmente una poesia icastica, dove l’immagine inattesa e folgorante brucia istantaneamente l’intera miccia fonosimbolica che l’ha preparata. L’accurata punteggiatura del suo dettato è tale da mimare nello spazio grafico del testo e nelle pieghe del verso, quel processo discontinuo dell’evoluzione del fenotipo (o teoria degli equilibri punteggiati), quell’alternanza di lunghe pause e improvvise fioriture di varietà morfologiche nel corso della speciazione, che il neodarwinismo moderno ha oramai integrato alla dottrina del maestro. Continuando a sviluppare l’analogia fra testo e territorio, qui già surrettiziamente introdotta, possiamo ben dire che il discorso di Giovanni Ibello si realizza proprio in modo epocale: cioè per pause introspettive calcolate alla suspense, e vere e proprie esplosioni a sorpresa di nuovi clusters metaforici che vengono poi a loro volta improvvisamente potatati o decimati, in quella che qualcuno ha chiamato la rastremazione del suo dettato poetico. Questa analogia evolutiva non mi sembra peregrina in quanto essa è iscritta nel pulsare cosmico della poesia dell’autore a partire dalle sue “Turbative Siderali”, e in quel suo spasmodico appropriarsi della parola come veicolo di una pulsione prepotente o del conato precluso di possedere un mondo, di farsene signore, che forgia a fuoco il suo tenore metaforico. Perché la tempra della signoria non gli manca, né però la consapevolezza di dover fare i conti con quella coscienza servile attraverso cui ogni pur minima “fenomenologia dello spirito” è costretta a passare. Seppure, e a maggior ragione, in questa fase terminale della civiltà letterario-umanistica e forse anche della stessa specie umana. Così, in questi Dialoghi con Amin, la visione frontale spesso lascia il posto a quella verticale che interrompe la cronologia del discorso per farne ritagli, tessere di un mosaico kairologico, in cui il senso della storia appare colto da uno sguardo gettato sull’abisso, una bene-dizione nella piega dell’anatema.
In questi suoi Dialoghi con Amin, Ibello giostra nel “luogo del frammento” come un antico rapsodo o un attore tragico, dimostrandosi maestro nel catturare e nel mantenere viva l’attenzione del suo lettore ideale. Maestro della pausa e della battuta a sorpresa, della sospensione e della suspense, del taglio verticale improvviso, della figura inattesa che prende a tradimento, della traduzione eversiva di quanto precede. Il taglio feroce di un “frammento insurrezionale” che investe la voce e lo sguardo nello spasmo minimo della domanda cruciale: “quanti millimetri ci separano dal buio?” Così la pausa del verso racchiude la cesura epocale, e la giostra dei frammenti orbita intorno al “teorema dei fuochi”. La suspense mira alla possibile rivelazione del segreto. Perché nella intricata tessitura di questi Dialoghi con Amin, nell’estrema densità di questo buco nero del senso e della materia, bisogna sapere ascoltare, come una radiazione cosmica di fondo, il contrappunto spaziato fra interlocuzioni cruciali. E interrogarsi. Interrogare la cornice interna del senso. Qual è il nesso, per esempio, fra i titoli delle due sezioni: “il luogo del frammento” e “il teorema dei roghi”? O fra l’iniziale domanda che Adonis ci (e si) rivolge in esergo: “Chi di noi due ha partorito l’altro?” e la dichiarazione dell’io poetico che “la poesia è un lunghissimo addio”? E infine fra la domanda cruciale “quanti millimetri ci separano dal buio?” e l’affermazione finale che ogni cosa si annuncia solo mentre si sfigura? Questo è il dialogo sotteso, intercalare, che assegna le misure all’interazione fra i singoli frammenti: il responsorio fra la voce oracolare dominante e la reticenza della sfinge che proietta la sua lunga ombra nel presente, interrogando il cieco-veggente, l’archetipo tragico per eccellenza, su questa nostra estrema mutazione dell’umano.
Se si sposta l’attenzione su questa cornice interna del testo, risultano chiari i cenni verso il luogo del poema. La bordura, il parérgon qui infatti dialoga con l’érgon in quel modo arcano che da sempre definisce uno spazio di gioco. E poiché va inteso in senso drammatico, questo gioco delle parti si distribuisce nel testo a decretare il “fuori gioco” del Mondo nei confronti della Terra che lo ospita. Perché questo è il dialogo ontologico sotteso ai Dialoghi con Amin, ciò che fa transitare subitaneamente il discorso dall’io al noi, accennando a una intimità destinale fra l’io poetico/Adonis e il tu/Amin cui si rivolge. E che infine consente l’evocazione di una lei, “Xanita”, la piccola Xenia, imago dell’ospitalità stessa sfregiata dalla specie umana o dell’ospite reso nemico (xenos), della figlia ctonia, Persefone custodita nelle viscere di Demetra, colei che “conosce il teorema dei roghi” e che dovrebbe presiedere alla rifioritura ma che manifesta infine il suo cupio dissolvi: “voglio il mare dei cigni arenati”. Così nel dialogo mitologico e ontologico che definisce “Il luogo del frammento”, i margini del gioco al massacro e della disseminazione del senso, la Sfinge risponde all’Oracolo. E l’apparente monodia dell’io poetico si scopre essere stata sempre un contrappunto corale tragico, dove il soggetto e le sue maschere vengono coinvolti nello stesso vortice gravitazionale che è la cifra poetica di Giovanni Ibello, che “scrive ogni verso come fosse l’ultimo” e che qui si firma con l’epifania finale in dissolvenza, perché “ogni cosa si annuncia mentre si sfigura.”
Giuseppe Martella