Recensione di Prisca Agustoni a Strade bianche di Pierre Lepori (Novara, Interlinea, 2014)
Da Atelier 74 (giugno 2014)
A distanza di 10 anni dall’ultima silloge poetica, Pierre Lepori pubblica, a fine 2013, presso Interlinea di Novara, la nuova raccolta Strade bianche. Come spiega il proprio autore, questa silloge rappresenta il secondo tassello di una trilogia poetica iniziata, appunto, nel 2003, con Qualunque sia il nome (Bellinzona, Ed. Casagrande), e le poesie che la compongono partono appunto da dove si chiudeva Qualunque, da quella testarda e necessaria volontà di recuperare la fiducia nella parola, perchè grazie ad essa è possibile immaginarsi una pur fragile via d’uscita contro l’angoscia. Una strada bianca, forse.
L’angoscia, per l’appunto, è uno dei leitmotiv centrali nella precedente raccolta, che si ripropone, pur se in veste meno rabbiosa, meno tesa ad affrontare di petto le crepe nell’infanzia, anche in questa silloge. Lepori riprende e approfondisce il discorso del corpo come epicentro del sentimento e del pensiero, come superficie che sente, si screpola e macera violenza, amore, passione, tenerezza, commozione e bellezza. La bellezza, soprattutto, sembra qui un prisma di lettura del mondo, discreto, non ostentato, ma efficace nel produrre dei brevi intervalli d’incantesimo. Lo sguardo che si posa, che ammira, che s’attarda è un antidoto contro l’angoscia, è l’elisir per una tregua, una piccola epifania: “[…] e la luce ora é bella, /ruvida come segale, /la si attraversa fino al culmine d’aprile, /incuranti della sete e del timore , /e all’altra riva/non é un miraggio né falsità /si tocca /pelle. // Il pulsare di un tono maggiore” (p.45).
Questo “tono maggiore” che s’intravvede, come per lacerazioni in un dettato poetico tenuto assieme da un costante “tono in minore”, come lo ha sottolineato Pusterla nella presentazione in Qualunque sia il nome, ossia, come “un linguaggio sostanzialmente piano, con moderate accensioni liriche” (p.7), si riconduce, appunto, a quella “coscienza del vero” (Pusterla, p. 7), a quel scattare di un immagine, di una visione, di un accenno di bellezza indomata – nel senso di ciò che sopraggiunge, inatteso, a sorprenderci – capace di svelare qualcosa di non detto, scoperchiare la memoria che tiene stretto il ricordo. Un ricordo che si dà soprattutto nella sua evocazione corporale, e che si cerca di ricacciare indietro là dove si trovava – perchè in verità ciò che è passato è sì “come un fiore con radici disperate” (p.63).
Si capisce, di nuovo, come il corpo sia anche il palco prescelto – o predestinato – per la ricognizione, per la ricostruzione, silenziosa e paziente, di un senso, perchè è principalmente attraverso il corpo che nell’universo di Lepori si percepisce il mondo e si interagisce con l’altro. Il corpo con la sua voce e i suoi depositi o residui della memoria agisce come uno specchio che riflette un’immagine sempre distorta di sé, una voce dissonante, una maschera che però sa di essere maschera, un pierrot che non piange perchè, come succedeva con Vittorio Sereni, è “troppo carico di coscienza” per concedersi alla pietà. Invece della pietà, si apre una scorciatoia, in queste Strade bianche, la parola “speranza”, pennellata qua e là, non solo menzionata (“col sole rosa di quarzo e di speranza”, p. 90), ma anche indirettamente evocata, spesso, dalla presenza della natura, come succede con il vento: “E piove /ed è verso sera, in un chiarore quieto, /l’acqua vien giù concentrata /e le case, i semafori, gli amori /la guardano in silenzio.// La pioggia lava l’aria sporca, velenosa. // Poi s’alza il vento.” (p.51). . Se “redenzione” é una parola troppo definitiva, in questa silloge, “speranza” sembra essere il ponte che esiste tra l’angoscia iniziale e “la patria ritrovata”. O, forse, perchè no, anche la parola “eucaristia”, citata in chiusura di sezione “la strada”, come a voler mostrare ciò che si è incontrato a percorso terminato.
Ecco perchè ci pare che il tono dei componimenti resti sostanzialmente “in minore”, come a voler sottolineare che “non c’è / nessuna guerra da raccontare, /tutto succede altrove, […] / non è certo il dolore ereditato /che darà vita al brulicare del mondo” (p. 50).
Il sentimento di esilio di chi vive come uno spettatore della propria vicenda umana aleggia su questi versi, che rivelano anche la maturità di una voce interna, pacata e controllata, che suggerisce la pazienza, l’ascolto, il lento macerare delle cose.
Si direbbe che Lepori voglia dire solo quello che è lecito dire, quello che è necessario dire, riprendendo il monito di Celan. E questo tema è fondamentale nella sezione Judisches Museum, dove non vi è traccia alcuna di speranza, e nemmeno di un linguaggio che abbracci un’idea, un oggetto, un pensiero. In questo luogo, il corpo si fa ricettacolo muto di qualcosa d’indicibile, e il suo spostarsi tra le colonne di cemento armato, un vettore significante che sposta e fa deragliare sempre e senza fronzoli il senso, un senso. Il corpo, nello Judisches Museum, inventa a modo suo un linguaggio che parla d’esilio e d’amputazione (della memoria, della storia) e, di riflesso, anche il linguaggio poetico ne esce fragile, spezzettato, quasi impaurito.
Se “il corpo è l’ultimo che cede”(p.63), l’autore sfida la parola e la riflessione proprio laddove il corpo ha ceduto così tante volte. E interroga la memoria, non la sua, ma quella della storia, inscenando un io stordito che sonda il dolore degli altri, consapevole che il suo dire e interrogare e voler capire non trovano parole precise né giuste. E quindi é un parlare, sottovoce, per intermittenza, così come i vuoti dell’architettura cercano di riempire di senso i buchi della memoria laddove il senso non c’è e è stato brutalmente annientato.
Stimolante, a nostro avviso, questa sezione, esattamente per questa ragione, e coraggiosa: affrontare il limite estremo del senso, percorrere il deserto della parola, consapevoli del proprio limite, ma non indietreggiare. Sentirsi forse profondamente umani in questa sorta di no man’s land che è quello universale della morte.
Ma non vi è solo coscienza del limite estremo, in Strade bianche: c’è anche uno sguardo verso gli altri, un’apertura perché gli altri – che ci affiancano nel cammino, sull’autobus, nelle vie della città – possano entrare nell’universo poetico. E la voce lirica si attarda sul viso di un uomo, nell’autobus (p.80), ne scruta i lineamenti e attraverso questo indagare, lo sguardo pare risalire sino all’infanzia e intuirne le tristezze depositate in fondo all’anima. Oppure, in un altro componimento, lo sguardo della voce lirica incrocia “un fiume di sguardi che ti viene incontro, / rotolamento spavento di volti, /storia ognuno” (p.73).
Il corpo quindi diventa anche un ponte teso verso l’esterno, verso il luogo dove gli altri vivono – la città, in particolare, presente in diversi componimenti, fa capolino in questa silloge quasi interamente occupata da paesaggi semi deserti, dove l’io e il tu s’alzano come presenze che si muovono tentando schivare i colpi – come delle coltellate infierite, nel corpo del testo, dalle costanti costruzioni avversative che Lepori inscena, atti evocati di una tragedia dell’io. Un costante rimando alle macerie della storia in minore, la propria, quella di un io amputato e che ha imparato comunque a camminare, con pazienza e costanza.
Una coltre onirica – la stessa, rilevata da Pusterla nella già citata prefazione – si propone ora attraverso evocazioni al sogno, al risveglio (dell’io e della natura), a zone interstiziali tra neve e pioggia, luce e penombra, sogno e veglia, sillaba e silenzio, in quella frontiera dove è possibile che si nasconda il nome delle cose, il senso delle cose, il pulsare delle cose. Significativi, a questo riguardo, i versi che chiudono la sezione “il corpo” : “Sul vento ci si appoggia, è un piano inclinato / di masse d’aria, spostamenti di senso” (p.57).
E se “non è più un campo di battaglia” (p.92), quando prima, nel 2003, si leggeva “il senso della battaglia”, è forse perchè qual che importa, oggi come ieri, é il senso che sopravvive, dopo la battaglia. Un senso che spesso s’esilia e che è necessario, fondamentale cercare. Ritrovare quindi il senso della tragedia dell’io, ma anche di quella tragedia dell’umanità che ha messo allo sbaraglio voce e pensiero, una “voce incapace di contenere occhi a milioni” (p.79). Laddove è impossibile accogliere il mondo tra le braccia, ritrovare il senso delle cose, è necessario soffermarsi, osservare, pensare. Lasciarsi prendere dalla tentazione di capire. Anche se questo significa annaspare nel vuoto, “protendere le mani verso il fuoco”, e attendere finchè ognuno non trovi il proprio nord. (p.110).
Prisca Agustoni
Un testo tratto dalla raccolta :
Questa attesa così vasta.
È luce che svanisce lenta in lembi;
sopra, sempre, il coperchio del cielo,
rattrappita la mano, stanchi gli occhi,
la vita non afferra.
Dentro il calore umido,
i filamenti della stanchezza che tutto ha raccolto
nel torpore dei giorni.
Ma non è il tempo
che fa paura, né la morte
col suo gioco di specchi e desideri,
è questo rarefarsi dell’oggi,
a mano a mano che ieri si raccoglie
nell’imbuto delle parole. Un lutto immenso,
e non c’è nemmeno un volto amico,
tra i morti o tra i viventi.
A piedi nudi si va, in un altro deserto.